lunedì 17 luglio 2006
Intervista a Giandomenico Vaccari
Ogni promessa è debito. E Giandomenico Vaccari, fresco sovrintendente della Fondazione Petruzzelli, al quale venerdì scorso avevo chiesto un breve incontro per parlare di questa nuova stagione che sarà inaugurata in novembre con la celeberrima “Carmen” di Bizet è stato molto disponibile e non si è per nulla sottratto alle domande che gli ho rivolto. Ecco di seguito l’intervista che n’è venuta fuori. Maestro Vaccari quando e come è nata la sua passione per la musica?
“E’ stata mia madre ad inculcarmela. Già a quattro anni mi fece ascoltare molta musica classica, a cominciare dai Concerti Brandeburghesi di Johann Sebastian Bach.”
La mamma era musicista?
“No, lei nutriva solo una grande passione per la musica. In realtà faceva l’attrice e poi entrò in Rai nel 1958 come speaker.”
E l’amore per la Lirica?
“Quella passione l’ho coltivata tutta da solo.”
Il suo nome è inizialmente legato in campo “teatralmusicale” alla stagione d’oro del Petruzzelli degli anni Ottanta, durante la gestione di Ferdinando Pinto. Che ricordi ha di quel periodo? Che aria, in sostanza, si respirava nel Politeama di vent’anni fa e oltre?
“Innanzitutto, ci tengo a precisare che ho cominciato la mia militanza al teatro Petruzzelli ben prima che arrivasse Ferdinando Pinto. Ero infatti nel 1979, a soli ventitre anni aiuto regista stabile e direttore di palcoscenico, durante la gestione dell’indimenticabile impresario Carlo Vitale. Gestione che poi ho seguito anche a Lecce. E a tale proposito vorrei dire, che occorrerebbe ricordarsi un pochino di più di questo bravissimo impresario, autentico pilastro della vita musicale pugliese, a cui molti giovani musicisti di allora, tra l’altro, devono veramente tanto.”
Successivamente con Pinto lei è stato prima direttore di palcoscenico e poi direttore artistico?
“Sì, esatto. Nel 1984 divenni direttore artistico, ereditando l’incarico dal maestro Perucci, cioè di colui che mi ha insegnato il mestiere e cioè come si fa un cartellone, come si parla con gli artisti ed altro ancora.”
Torniamo al Petruzzelli e all’aria che allora si respirava…
“Si lavorava quindici ore al giorno e si vivevano delle situazioni assolutamente pionieristiche, a contatto con artisti spesso straordinari. Eravamo in pochi e realizzavamo cose assolutamente nuove per la città. Bisogna tener conto che all’epoca la programmazione del teatro era fortemente diversificata. Da una parte c’era la danza e la prosa, di cui si occupava attivamente Guido Pagliaro. Mentre a me fu affidato il compito di costruire una stagione lirica prodotta e realizzata a Bari. In pratica, con un’orchestra e un coro del Petruzzelli, rinnovati attraverso delle selezioni.”
Le maestranze di allora lavoravano a contratto stagionale?
“Sì, o venivano scelte volta per volta, a seconda delle esigenze della programmazione artistica.”
Nel 1990 lei poi lasciò il Petruzzelli per andare al teatro Comunale di Bologna, dove divenne segretario artistico del sovrintendente dell’epoca Sergio Escobar. Una scelta ambiziosa e coraggiosa, ma dettata anche dai problemi finanziari del teatro barese o sbaglio?
“Chiariamo. Sono partito innanzitutto perché desideravo misurarmi con altri spazi teatrali, fare nuove esperienze, percorrere nuove strade. Certo, all’epoca per il Petruzzelli iniziarono seri problemi finanziari e c’era un clima di crisi. Io fui convocato da Escobar che mi fece un’audizione ed esprimendo una certa soddisfazione mi disse: bene maestro Vaccari, da settembre lei è il nuovo segretario artistico del Comunale. All’epoca, vorrei ricordarlo il Comunale di Bologna era il terzo teatro italiano più importante. ”
C’era, se non sbaglio, Riccardo Chailly come direttore artistico e musicale?
“Sì, certamente. Ho lavorato al suo fianco per tre anni. Un celebre, splendido compagno di lavoro, ma soprattutto una persona di grande efficienza e precisione, direi lombarda. Quando poi arrivò Christian Thielemann, tedesco berlinese allora assai giovane, cominciò la confusione perché da questo punto di vista Christian assomigliava più ad un…napoletano che a un tedesco. Si cambiava frequentemente cast all’ultimo momento. Oggi naturalmente nessuno discute che sia un grandissimo direttore d’orchestra.”
La ricostruzione del Petruzzelli nel frattempo si allontana. Adesso si parla del 2009. Mi viene in mente una cosa: oggi è diventato più facile costruire stadi per il pallone piuttosto che costruire o ri-costruire teatri. Lei è d’accordo?
“In realtà oggi ci sono tante e talmente complesse procedure che come per un’autostrada o un ponte, anche per mettere mano ad un teatro nuovo passano anni e anni…”
Qualcuno paragona la Fenice di Venezia con il nostro Petruzzelli?
“Era ed è un teatro completamente pubblico, a differenza del nostro. Tutto lì. Hanno impiegato appena sei anni per ricostruirlo solo per quel motivo.”
La stagione che lei ha appena disegnato e presentato insieme al suo staff per la Fondazione Petruzzelli, è secondo alcuni cronisti della stampa pugliese ancora una volta transitoria, ma con meno qualità e ambizioni rispetto agli anni scorsi. Ad esempio, qualcuno ha sostenuto che c’è più coraggio nel proporre opere di Weill e Stravinskij, anzichè Rota, Pizzetti e Puccini. Lei cosa risponde?
“Io parto da una considerazione e da un obiettivo prioritari. Far diventare tutto il Novecento musica di repertorio. Ha cominciato a farlo alcuni anni fa Carlo Majer al Regio di Torino. Da lì certe cose nel panorama italiano sono cambiate. A Torino si è da allora programmato molto Novecento anche classico o tonale se si preferisce. In quegli anni non era facile proporre nei teatri italiani, Scala e Biennale di Venezia a parte, opere di Benjamin Britten o Richard Strauss e si andava sul sicuro con il repertorio tradizionale del melodramma. Il mio lavoro da un lato è stato proprio quello di continuare nell’opera svolta dalla precedente direzione artistica, non facendone peraltro una mera fotocopia. Tosca, che quest’anno proponiamo nell’interpretazione di un maestro del calibro di Daniel Oren è la prima grande opera italiana del Novecento. Non dimentichiamolo. Ed è opera modernissima, cruda, dove si respirano tutti i decisivi fermenti di un mondo storico e culturale che sta vorticosamente cambiando. Tosca non fu perciò scritta da Puccini “solo” per essere fascinosa, romantica, o peggio, post-ottocentesca. Ecco perché per creare un pubblico nuovo e più aperto al Novecento non basta solo fare salti - talora solo auto-referenziali - nella musica di oggi, ma bisogna far conoscere e digerire al pubblico anche altri capolavori che hanno fatto e fanno la storia del repertorio lirico italiano ed europeo. In sintesi: occorre creare un importante progetto di comunicazione con il pubblico. E per arrivare a questo fondamentale obiettivo mi batterò con tutte le forze.”
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