Nella Garzantina della Musica le voci biografiche di Franz Schubert ed Erwin Schulhoff sono praticamente attaccate. Una coincidenza abbastanza curiosa, se si considera che il concerto sinfonico diretto venerdì scorso allo Sheraton Nicolaus di Bari da Gunter Nehuold, accostava al Concerto per pianoforte e piccola orchestra op. 43 di Schulhoff, la Sinfonia n. 9 detta "La grande" di Franz Schubert, quest'ultima autentico capolavoro del repertorio sinfonico di ogni epoca. La serata decisamente fredda avrà consigliato non pochi appassionati a disertare l'appuntamento. E infatti non eravamo proprio in tanti ad applaudire l'ottima esibizione della brava pianista viennese Emma Schmidt nel concerto schulhoffiano.
Compositore e pianista tedesco di origine boema morto nel 1942 in un campo di concentramento a Wulzburg in Baviera (al suo attivo si ricorda anche un'opera dedicata niente di meno che al "Manifesto" di Marx ed Engels), Schulhoff scrisse questo concerto nel 1923. Un lavoro che indubbiamente rispecchia la sua abilità pianistica in vita e anche una curiosa, a tratti assai complessa, scrittura orchestrale, dove abbondano i fiati, diverse percussioni e persino i fischietti. Non indimenticabile invece da un punto di vista almeno contenutistico il concerto in sè, che se si esclude una matrice parajazzistica e popolaresca, non regala che poche emozioni. Decisamente più emozionante sarebbe, almeno sulla carta, l'ascolto della "Grande" di Schubert ma non mi è sembrato che l'Orchestra della Provincia di Bari fosse in vena come nelle ultime occasioni; lo stesso Nehuold non ha espresso appieno il suo indubbio talento, regalandoci una lettura certo in surplace, rapida, leggera, ma anche un po' troppo metronomica quando non ha sottolineato a dovere certi abbandoni pre-brahmsiani o gli stupefacenti "crescendo" degli ottoni (per certi versi già bruckneriani) di cui è agevole trovar traccia nella partitura. Una sinfonia che Robert Schumann scoprì casualmente a Vienna nella casa del fratello del compositore (già morto da tempo) e di cui anche Mendelssohn lodò la "divina lunghezza" avrebbe certo meritato un approfondimento maggiore.
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