Tre case affiancate disegnate nel cielo azzurro intercalato da nuvolette bianche. Un po’ Magritte, un po’ Folon e magari un po’ anche il film Truman Show (ve lo ricordate?) nella favola surreale, senza tempo, dell’Elisir d’amore.
Così il regista Francesco Esposito coadiuvato dallo scenografo Tommaso Lagattolla, dal light design Bruno Ciulli, con le coreografie per i movimenti scenici di Domenico Iannone ha intelligentemente ripensato nello spazio 7 della Fiera del Levante di Bari il popolare dramma giocoso di Gaetano Donizetti, su libretto di Felice Romani.
I costumi, d’altro canto, dello stesso Esposito sembrerebbero però in parte contraddire l’apparente surrealtà in cui è calata la vicenda: un piccolo villaggio contadino del reggiano alla fine del ‘700. E invece è proprio la chiusura tipicamente provinciale al mondo esterno che permette al regista di “giocare” con le fughe dalla realtà regalate a piene mani dal mago-ciarlatano Dulcamara con i suoi filtri d’amore in un’atmosfera fiabesca che Donizetti (per la parte musicale) e Romani (per il libretto) plasmarono ad arte in appena due settimane di lavoro: un tempo di prodigiosa brevità rossiniana. E chi se non Rossini è il modello principale del giovane compositore bergamasco in quest’opera?
La regia è dunque briosa e fantasiosa anche grazie ai movimenti scenici ideati da Domenico Iannone che fanno dimenticare, almeno per un momento, il contesto ambientale in cui l’opera va in scena: un padiglione industriale della Fiera del Levante seppure ottimamente riattato.
Circostanza dolorosa (a Petruzzelli ancora inspiegabilmente chiuso) che mettiamo da parte godendo della musica ora frizzante, ora mirabolante delle danze e dei cori contadini che riempiono lo schermo surreale dell’allestimento barese.
Per l’esecuzione musicale, a dire il vero, proviamo meno entusiasmo. La direzione della bella canadese Keri-Lynn Wilson brilla di un incipit convincente nella ouverture, complice la buona tenuta dell’Orchestra della Provincia di Bari, per poi smarrirsi nelle scene d’insieme e nei vorticosi crescendi di matrice rossiniana, che richiedono un’esattezza agogica e una precisione negli attacchi millimetriche. Certo è che nelle prossime recite troverà senz’altro la quadratura del cerchio. O almeno lo speriamo.
Nel cast vocale non regalano le necessarie certezze belcantistiche l’Adina un po’ faticosa di Roberta Canzian e l’acerbo Nemorino del giovane tenore russo Alexey Kudrya: voce di timbro angusto, vibrato tremulo e ingolata nei pochi non insormontabili acuti dell’opera. Ricordiamo con struggente nostalgia l’edizione del Petruzzelli con il Maestro Carlo Bergonzi e un ancora non celebrata star come Mariella Devia.
Meno male che a salvare il cast vocale ci pensa lo straordinario Dulcamara dell’uruguaiano Erwin Schrott: timbro seducente, dizione perfetta, doti attoriali non comuni. Lo scorso anno, non è un caso, che abbia meritatamente trionfato al Festival di Salisburgo nel Don Giovanni di Mozart. Discreti, infine, il Belcore di Luca Salsi e la Giannetta di Filomena Diodati ed egregia la prova del Coro della Fondazione Petruzzelli. Alla fine il pubblico, che ha comunque sempre ragione, gradisce e applaude salomonicamente tutti, magari solo un po’ indispettito per non aver goduto appieno della stupenda aria di Nemorino - “Una furtiva lagrima” – rovinata da inopportuni quanto rumorosi fuochi d’artificio provenienti dal vicino lungomare. Un altro direttore avrebbe forse fermato l’orchestra e atteso la fine del fastidioso disturbo; la Wilson no, lei è andata teutonicamente avanti come se nulla fosse...
Così il regista Francesco Esposito coadiuvato dallo scenografo Tommaso Lagattolla, dal light design Bruno Ciulli, con le coreografie per i movimenti scenici di Domenico Iannone ha intelligentemente ripensato nello spazio 7 della Fiera del Levante di Bari il popolare dramma giocoso di Gaetano Donizetti, su libretto di Felice Romani.
I costumi, d’altro canto, dello stesso Esposito sembrerebbero però in parte contraddire l’apparente surrealtà in cui è calata la vicenda: un piccolo villaggio contadino del reggiano alla fine del ‘700. E invece è proprio la chiusura tipicamente provinciale al mondo esterno che permette al regista di “giocare” con le fughe dalla realtà regalate a piene mani dal mago-ciarlatano Dulcamara con i suoi filtri d’amore in un’atmosfera fiabesca che Donizetti (per la parte musicale) e Romani (per il libretto) plasmarono ad arte in appena due settimane di lavoro: un tempo di prodigiosa brevità rossiniana. E chi se non Rossini è il modello principale del giovane compositore bergamasco in quest’opera?
La regia è dunque briosa e fantasiosa anche grazie ai movimenti scenici ideati da Domenico Iannone che fanno dimenticare, almeno per un momento, il contesto ambientale in cui l’opera va in scena: un padiglione industriale della Fiera del Levante seppure ottimamente riattato.
Circostanza dolorosa (a Petruzzelli ancora inspiegabilmente chiuso) che mettiamo da parte godendo della musica ora frizzante, ora mirabolante delle danze e dei cori contadini che riempiono lo schermo surreale dell’allestimento barese.
Per l’esecuzione musicale, a dire il vero, proviamo meno entusiasmo. La direzione della bella canadese Keri-Lynn Wilson brilla di un incipit convincente nella ouverture, complice la buona tenuta dell’Orchestra della Provincia di Bari, per poi smarrirsi nelle scene d’insieme e nei vorticosi crescendi di matrice rossiniana, che richiedono un’esattezza agogica e una precisione negli attacchi millimetriche. Certo è che nelle prossime recite troverà senz’altro la quadratura del cerchio. O almeno lo speriamo.
Nel cast vocale non regalano le necessarie certezze belcantistiche l’Adina un po’ faticosa di Roberta Canzian e l’acerbo Nemorino del giovane tenore russo Alexey Kudrya: voce di timbro angusto, vibrato tremulo e ingolata nei pochi non insormontabili acuti dell’opera. Ricordiamo con struggente nostalgia l’edizione del Petruzzelli con il Maestro Carlo Bergonzi e un ancora non celebrata star come Mariella Devia.
Meno male che a salvare il cast vocale ci pensa lo straordinario Dulcamara dell’uruguaiano Erwin Schrott: timbro seducente, dizione perfetta, doti attoriali non comuni. Lo scorso anno, non è un caso, che abbia meritatamente trionfato al Festival di Salisburgo nel Don Giovanni di Mozart. Discreti, infine, il Belcore di Luca Salsi e la Giannetta di Filomena Diodati ed egregia la prova del Coro della Fondazione Petruzzelli. Alla fine il pubblico, che ha comunque sempre ragione, gradisce e applaude salomonicamente tutti, magari solo un po’ indispettito per non aver goduto appieno della stupenda aria di Nemorino - “Una furtiva lagrima” – rovinata da inopportuni quanto rumorosi fuochi d’artificio provenienti dal vicino lungomare. Un altro direttore avrebbe forse fermato l’orchestra e atteso la fine del fastidioso disturbo; la Wilson no, lei è andata teutonicamente avanti come se nulla fosse...