Il capolavoro di Franz Lehár deve la sua incredibile fortuna a una serie di elementi che in corso di svolgimento si conciliano e si esaltano reciprocamente. Il denaro, l’amore, la gelosia e la fedeltà costituiscono, infatti, temi universali e al contempo usuali motivi d’ispirazione delle commedie buffe del Settecento. Henri Meilhac che scrive l’Attaché d’ambassade (1861), da cui poi Viktor Léon e Leo Stein trarranno circa quarant’anni dopo il materiale per il libretto della Vedova Allegra mette indirettamente a disposizione di Lehár un’innocua quanto bizzarra vicenda di amore ed eredità che passa tra intrecci ambigui e divertenti, ma certo più lineari e comprensibili se paragonati a quelli spesso arzigogolati dei singspiel tedeschi e delle opere buffe settecentesche di scuola napoletana. Insomma, i valzer, le polke, le mazurke, in salsa ungherese, dell’ex direttore di banda militare austro-ungarico, rivestono a meraviglia una storia divertente, a tratti intrisa di maliziosa sensualità, ma soprattutto rivissuta in uno spirito scintillante sempre in bilico tra la belle époque parigina, dov'è ambientata la vicenda dell'operetta, e la dolce vita viennese, nel momento in cui si stanno invece consumando gli ultimi sprazzi gioiosi di un impero in decadenza (nel 1905, anno della prima della Vedova a Vienna, la prima guerra mondiale è ormai imminente). A Bari, la Vedova Allegra, in versione italiana, è andata in scena venerdì scorso al Teatro Piccinni (foto di Vito Mastrolonardo) per la stagione della Fondazione Lirico Sinfonica "Petruzzelli e Teatri di Bari" in un allestimento della Fondazione Arena di Verona, con la regia di Gino Landi, ripresa qui da Maurizia Camilli, su scene di Ivan Stefanutti e costumi di Valentina Bazzucchi. L’Orchestra della Provincia di Bari e il Coro della Fondazione Petruzzelli erano diretti da Julian Kovatchev. Nei ruoli principali si alterneranno sino a martedì due differenti cast vocali.
L’allestimento di Landi - e non poteva essere diversamente considerata la statura del regista – è di ottimo livello, tradizionale e ben curato. Peccato che al Piccinni, come ha ricordato lo stesso regista nel corso di un incontro all’Università di Bari, il palcoscenico sia un po’ angusto per scenografie così di ampio respiro e profondità, come sono appunto quelle elegantemente disegnate in perfetto stile liberty da Stefanutti. Eppure, nonostante una fase di eccessivo "traffico" nel primo atto (con coro e comparse che si spostavano un po' innaturalmente da un lato all’altro del palco), il resto è filato liscio e ha divertito la bravura complessiva dei numerosi cantanti e ballerini impegnati, tra cui spiccavano le squisite qualità vocali delle protagoniste femminili Chiara Taigi (Hanna Glavari) e dell’intramontabile Daniela Mazzuccato (Valencienne). Sul versante maschile, un po’ discontinui – vocalmente parlando - Alessandro Safina (Danilo) e Max Renè Cosotti (Camille de Rossillon). C’era poi molta curiosità per la prova del popolare cabarettista nostrano Uccio De Santis nel ruolo dell’impiegato Njegus. A parte qualche veniale incertezza, direi che è stato lui il vero mattatore della scena, regalando al folto pubblico presente, alcune felici e divertenti battute – talora, persino improvvisate al momento - in tipica…“salsa barese”. La direzione di Kovatchev, improntata ad un buon equilibrio tra voci e buca, prediligeva i nostalgici e languorosi abbandoni viennesi rispetto alle scatenate danze ungheresi o parigine (c’è persino l’inserimento voluto da Landi del celebre can-can di Offenbach) del secondo e del terzo atto. L’orchestra sollecitata da una guida così valida e autorevole, ha risposto con discreta compattezza. Bene il Coro della Fondazione preparato da Luigi Petrozziello e Donato Sivo. Una menzione particolare meritano, infine, i tre straordinari ballerini, Gianluca Bessi, Giovanna Gallorini e Nicola Mancini, impegnati nelle acrobatiche coreografie (più da musical, in verità, che da operetta) create da Landi e dalla sua fida assistente Cristina Arrò. Alla fine, successo calorosissimo e meritato per tutti.
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