Tosca, come è noto, è da sempre una delle opere di Giacomo Puccini più celebri e maggiormente rappresentate sia in Italia che all’estero. Tuttavia, sin dalla prima esecuzione, avvenuta al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, essa raccolse pareri assai contrastanti. Basterebbe sfogliare le cronache dei giornali dell’epoca per rendersene conto. Severe critiche le vennero rivolte in seguito anche da direttori-compositori del calibro di Gustav Mahler che diede inopinatamente dello “scalzacane” a Puccini e di contro anni dopo il musicologo René Leibowitz, tra gli altri, ne apprezzò la straordinaria e anticipatrice modernità. A distanza di più di un secolo da quella prima esecuzione Tosca ha ormai conquistato un posto privilegiato e praticamente intoccabile tra le opere liriche più amate. Ancora oggi viene allestita spesso e con grande successo dai principali teatri del mondo. A Bari, la giovanissima Fondazione Lirico Sinfonica Petruzzelli (ancora per poco, si spera, priva del suo teatro d'opera distrutto da un incendio doloso nel 1991) l’ha proposta ieri sera al Teatro Piccinni, una sorta di “piccolo” San Carlo che sappiamo tutti bene non è adeguato per l’allestimento di opere liriche di questa portata e che invece richiederebbero ben altro palcoscenico per i cantanti e ben altro golfo mistico per l’orchestra. Nonostante ciò, il sovrintendente e direttore artistico Giandomenico Vaccari ha ritenuto, a ragione, sin dall’inizio della stagione di proporre anche opere di questo tipo all’ affamato pubblico barese dei melomani; pubblico altrimenti ingiustamente “condannato” ad assistere per svariati anni solo a opere buffe, da camera, operette e via dicendo…
Vaccari ha allora chiamato Daniel Oren, direttore d’orchestra tra i più apprezzati e celebrati nel repertorio pucciniano e verdiano, che non si è per nulla scoraggiato (l’anno scorso, in analoghe condizioni, diresse infatti una splendida “Madama Butterfly”) a dover distribuire l’orchestra oltre che nella limitata buca, anche in ben tre palchi adiacenti. Né si sono scoraggiati la giovane regista veneziana Elena Barbalich, lo scenografo Tommaso Lagattolla e la costumista Anna Biagiotti a ripensare Tosca seguendo un’impostazione minimalista e dalle linee sobrie, essenziali, eleganti, pur nel rispetto di spazio e tempo della vicenda. Non sono visibili i tre luoghi romani della vicenda - Sant’Andrea della Valle, Castel Sant’Angelo e Palazzo Farnese – ma si intuiscono, o meglio, si materializzano direttamente nell’interiorità dei personaggi in scena, nonchè attraverso la stupenda musica di Puccini. Un gioco di luci ed ombre, alcuni pannelli neri che frammentano il cielo romantico di un pittore (quasi) contemporaneo di Cavaradossi come Delacroix, il plumbeo, a tratti demoniaco, mondo di Scarpia, connotato invece da uno stile pittorico più vicino a quello di Caravaggio. Lo stesso dicasi nel primo atto - quello didascalicamente parlando ambientato nella Chiesa di Sant’Andrea - dove invece troviamo solo una camera ardente e un mausoleo, luogo tra l’altro originale di Castel Sant’Angelo. Insomma, una lettura quella di Barbalich e Lagattolla intelligente e (qualche volta per fortuna capita…) rispettosa della musica, che ha saputo coniugare tradizione e modernità, dovendo naturalmente fare i conti con l’esigua larghezza e profondità del palcoscenico del Piccinni. Il cast prescelto da Oren poteva poi contare su tre protagonisti vocali che rappresentavano ciascuno una generazione differente. Il giovane talento della soprano cinese Hui Hue (Tosca) esploso nel 2000 quando vinse il 2° Premio al Concorso “Placido Domingo’s Operalia) e successivamente consacrata dalla vittoria assoluta nel 2002 al “Concorso Voci Verdiane” di Busseto. Si sa, il presente e probabilmente anche il futuro del melodramma italiano passa attraverso impressionanti vocalità provenienti da Oriente; a seguire, Piero Giuliacci, di una generazione di mezzo, impersonava invece Cavaradossi e infine il “grande vecchio” Silvano Carroli (immaginate che ha debuttato nel 1963 in Bohème: incredibile!), autentico monumento vivente della Lirica italiana e tra i pochi interpreti di riferimento degli ultimi trent’anni nel ruolo del cattivissimo Barone Vitellio Scarpia. Un cast omogeneo e ben assortito dunque, che ha trovato poi nella folgorante bacchetta di Daniel Oren il grande mattatore della serata, autentico “Deus ex machina” risolutivo di tutte le problematiche logistiche anzidette. Per una volta, vi confido, mi è capitato di sedermi in platea addirittura in seconda fila: un luogo privilegiato più per osservare al meglio cantanti, direttore d’orchestra e buca, che per ascoltare. Il mio vicino di posto, un collega venuto apposta da Venezia, alla fine dell’opera mi ha sussurrato: “Oren è sempre uno straordinario spettacolo da vedere e vale da solo il prezzo del biglietto”. Alcuni severi critici italiani (e non solo) storcerebbero parecchio il naso di fronte ad un’entusiastica affermazione del genere. Secondo costoro infatti l’incontenibile (ed in effetti, almeno a tratti, quasi “animalesca”) agitazione sul podio del maestro israeliano sarebbe più vicina ad un contesto circense che ad una sala da concerto. Eppure, cari colleghi, chi scrive ha avuto la fortuna di ascoltare per radio quei brontolii, quei sospiri, quei sordi singulti, quel batter con forza irresistibile i piedi saltando come un ossesso sul podio, già trent’anni fa, quando Oren, fresco vincitore del “Concorso Von Karajan”, dirigeva invitato da quell’eccezionale galantuomo che era Francesco Siciliani a Roma e poi a Napoli (con l’indimenticabile Orchestra Rai “Alessandro Scarlatti”) le sinfonie di Beethoven e di Mahler, raccogliendo intorno a sé orde impazzite di fans. Sembrava una rockstar allora, lo sembra ancor di più oggi, con la maturità che gli hanno portato gli anni, il maniacale affinamento espressivo ed interpretativo delle opere (solo pochi titoli, purtroppo!) che dirige. Oren controlla oggi più di ieri il suo viscerale temperamento che lo caratterizzava sin dagli esordi e sa far dialogare, suonare e cantare “con il cuore”, orchestra, coro e cantanti come pochi al mondo. Cosa dire del cast? Iniziamo da Hui Hue. La soprano cinese possiede un bagaglio vocale davvero importante: di generoso volume nei centri della tessitura, stentorea negli acuti; latita ancora un po’ nell’articolazione del fraseggio e le manca l’esperienza per calarsi appieno e con la necessaria credibilità nel complesso personaggio di Tosca. Questione solo di tempo e studio, naturalmente. Credibilità e sicurezza che invece non mancano a Piero Giuliacci (Cavaradossi), tenore di scuola pavarottiana dal timbro seducente e dall’acuto squillante e a Silvano Carroli (Scarpia) che nonostante una voce logorata dagli anni, ma - si badi bene - mai arrendevole, regala al personaggio di Scarpia (da lui cantato in oltre quarant’anni di luminosa carriera centinaia di volte in tutto il mondo) una presenza scenica davvero esemplare. Egregie infine le prove del coro, dell’orchestra e degli altri cantanti impegnati nei ruoli di contorno. Si replica domani sabato 26 e lunedì 28 maggio, ma è già tutto esaurito. La foto dello spettacolo è naturalmente del bravo Vito Mastrolonardo.
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