Non saprei dirvi quanti fossero gli spettatori presenti – forse 600, forse di più - ieri al concerto della Israel Philarmonic Orchestra diretta dal celebre maestro indiano Zubin Mehta ieri in Fiera a Bari per l’apertura della stagione sinfonica della Fondazione Petruzzelli.
Certo è che molti di loro non avevano mai ascoltato la Settima Sinfonia di Gustav Mahler o forse – si può dire? - una sinfonia in vita loro. Solo così si può, almeno in parte, giustificare la persistente maleducazione con cui costoro si sono ad arte cimentati, o se preferite, esibiti nell’applaudire alla fine di ciascuno dei cinque movimenti (sperando probabilmente che fosse l’ultimo) del capolavoro mahleriano. Eppure il programma di sala è stato distribuito gratuitamente. Non ci sono scuse che tengano. E lì, oltre alla competente, pur complessa, analisi musicologica del professor Quirino Principe, era anche scritto ben chiaro e leggibile che la Settima mahleriana ne contempla cinque di movimenti e non uno solo.
Lo confesso: mi sono vergognato io per loro. Bastava infatti guardare dopo le puntuali quanto impertinenti interruzioni, gli eleganti professori d’orchestra della Filarmonica israeliana che si scambiavano occhiatacce di commiserazione che parevan dire: “Poveretti…”, o peggio, “Ma dove siamo capitati?”.
Passo indietro: Prima dell’inizio del concerto il grande Zubin ha reso omaggio all’amico e collega Luciano Pavarotti, compagno di tante straordinarie avventure artistiche, scomparso all’alba di ieri per un male incurabile. Lo ha fatto con una toccante, commovente testimonianza. La Settima di Mahler di ieri è stata dedicata a lui. Un gesto davvero bello, encomiabile. E veniamo all’esecuzione. Il compositore Giacomo Manzoni nella sua notissima guida all’ascolto della musica sinfonica, pubblicata da Feltrinelli (da consigliare naturalmente a tutti coloro che applaudono al momento sbagliato) riassume in modo semplice ed efficace i caratteri e lo spirito della Settima di Mahler (1905). Ve ne riporto almeno la prima parte: “La Settima costituisce il compendio e insieme l’acme incandescente del mondo poetico mahleriano ed è opera di straordinaria ricchezza fantastica anche se il musicista rinuncia in essa allo strumento da lui prediletto, la voce umana. Il luogo comune secondo cui la strumentazione mahleriana sarebbe quella tipica – esteriore – da direttore d’orchestra, cade verticalmente di fronte a questa composizione, che per tanti versi sta alla base di tanta musica contemporanea, in particolare, di quella della Scuola di Vienna, almeno nella sua fase espressionistica.”
La complessità della Settima non si rivela solo nei contenuti formali e nell’apparente esteriorità di un’orchestrazione di pazzesca, mostruosa complessità. Ma è soprattutto individuabile nell’enigmaticità di uno stile, quello del geniale Mahler, che sta cambiando vertiginosamente, che si sta cioè evolvendo da una parte, attraverso la ricerca di codici sonori nuovi e ancora inesplorati, dall’altra sgretolando con gradualità inesorabile il linguaggio tonale preesistente.
La lettura di una sinfonia così difficile, ermetica e particolare cela pertanto difficoltà ermeneutiche in ogni dove, e trappole nelle quali è assai agevole cadere per chiunque. Soprattutto, a mio sommesso parere nel primo movimento (Langsam, Allegro con fuoco) così plumbeo, lugubre, macabro, “una marcia al cui ritmo non è possibile marciare” (Principe). Ed è proprio in questo primo movimento che mi è parsa non condivisibile l’interpretazione di un “mahleriano doc” come Zubin Mehta (per i restanti tempi rivelatasi, al contrario, di indiscutibile valore). Tempi comodi, a tratti, comodissimi. Contrasti timbrici poco evidenziati, accenti addolciti anziché “scagliati” come mi sarei aspettato. Una tenuta dell’orchestra complessivamente pregevole nel colore adamantino e sinuoso degli archi e dei legni, meno impeccabile invece negli ottoni, fallosi sin dall’incipit. Meglio, decisamente meglio il seguito dell’esecuzione resa da Mehta e dalla sua orchestra con la necessaria leggerezza, doviziosa precisione e perfetta aderenza espressiva al naturalismo ambiguo delle due musiche notturne, al diabolico “Scherzo” e infine perfetta nell’ironico, rutilante, a tratti chiassoso, finale con la celeberrima parodia del Preludio atto I dei Maestri cantori di Norimberga, ad indicare la fine di un Mondo (l’allusione profetica all’Impero austro-ungarico non era poi così lontana dalla realtà) che stava definitivamente scomparendo.
Pubblico barese in visibilio con ripetute ovazioni. Non c’è però l’atmosfera giusta per il bis. Il direttore indiano dopo cinque minuti di applausi manda tutti a casa, mentre fuori si scatena il temporale. Il ciclo mahleriano continuerà (si spera a questi eccellenti livelli) anche nei prossimi anni al Petruzzelli. Così almeno ha promesso Giandomenico Vaccari, Sovrintendente della nostra Fondazione Lirico Sinfonica.
Certo è che molti di loro non avevano mai ascoltato la Settima Sinfonia di Gustav Mahler o forse – si può dire? - una sinfonia in vita loro. Solo così si può, almeno in parte, giustificare la persistente maleducazione con cui costoro si sono ad arte cimentati, o se preferite, esibiti nell’applaudire alla fine di ciascuno dei cinque movimenti (sperando probabilmente che fosse l’ultimo) del capolavoro mahleriano. Eppure il programma di sala è stato distribuito gratuitamente. Non ci sono scuse che tengano. E lì, oltre alla competente, pur complessa, analisi musicologica del professor Quirino Principe, era anche scritto ben chiaro e leggibile che la Settima mahleriana ne contempla cinque di movimenti e non uno solo.
Lo confesso: mi sono vergognato io per loro. Bastava infatti guardare dopo le puntuali quanto impertinenti interruzioni, gli eleganti professori d’orchestra della Filarmonica israeliana che si scambiavano occhiatacce di commiserazione che parevan dire: “Poveretti…”, o peggio, “Ma dove siamo capitati?”.
Passo indietro: Prima dell’inizio del concerto il grande Zubin ha reso omaggio all’amico e collega Luciano Pavarotti, compagno di tante straordinarie avventure artistiche, scomparso all’alba di ieri per un male incurabile. Lo ha fatto con una toccante, commovente testimonianza. La Settima di Mahler di ieri è stata dedicata a lui. Un gesto davvero bello, encomiabile. E veniamo all’esecuzione. Il compositore Giacomo Manzoni nella sua notissima guida all’ascolto della musica sinfonica, pubblicata da Feltrinelli (da consigliare naturalmente a tutti coloro che applaudono al momento sbagliato) riassume in modo semplice ed efficace i caratteri e lo spirito della Settima di Mahler (1905). Ve ne riporto almeno la prima parte: “La Settima costituisce il compendio e insieme l’acme incandescente del mondo poetico mahleriano ed è opera di straordinaria ricchezza fantastica anche se il musicista rinuncia in essa allo strumento da lui prediletto, la voce umana. Il luogo comune secondo cui la strumentazione mahleriana sarebbe quella tipica – esteriore – da direttore d’orchestra, cade verticalmente di fronte a questa composizione, che per tanti versi sta alla base di tanta musica contemporanea, in particolare, di quella della Scuola di Vienna, almeno nella sua fase espressionistica.”
La complessità della Settima non si rivela solo nei contenuti formali e nell’apparente esteriorità di un’orchestrazione di pazzesca, mostruosa complessità. Ma è soprattutto individuabile nell’enigmaticità di uno stile, quello del geniale Mahler, che sta cambiando vertiginosamente, che si sta cioè evolvendo da una parte, attraverso la ricerca di codici sonori nuovi e ancora inesplorati, dall’altra sgretolando con gradualità inesorabile il linguaggio tonale preesistente.
La lettura di una sinfonia così difficile, ermetica e particolare cela pertanto difficoltà ermeneutiche in ogni dove, e trappole nelle quali è assai agevole cadere per chiunque. Soprattutto, a mio sommesso parere nel primo movimento (Langsam, Allegro con fuoco) così plumbeo, lugubre, macabro, “una marcia al cui ritmo non è possibile marciare” (Principe). Ed è proprio in questo primo movimento che mi è parsa non condivisibile l’interpretazione di un “mahleriano doc” come Zubin Mehta (per i restanti tempi rivelatasi, al contrario, di indiscutibile valore). Tempi comodi, a tratti, comodissimi. Contrasti timbrici poco evidenziati, accenti addolciti anziché “scagliati” come mi sarei aspettato. Una tenuta dell’orchestra complessivamente pregevole nel colore adamantino e sinuoso degli archi e dei legni, meno impeccabile invece negli ottoni, fallosi sin dall’incipit. Meglio, decisamente meglio il seguito dell’esecuzione resa da Mehta e dalla sua orchestra con la necessaria leggerezza, doviziosa precisione e perfetta aderenza espressiva al naturalismo ambiguo delle due musiche notturne, al diabolico “Scherzo” e infine perfetta nell’ironico, rutilante, a tratti chiassoso, finale con la celeberrima parodia del Preludio atto I dei Maestri cantori di Norimberga, ad indicare la fine di un Mondo (l’allusione profetica all’Impero austro-ungarico non era poi così lontana dalla realtà) che stava definitivamente scomparendo.
Pubblico barese in visibilio con ripetute ovazioni. Non c’è però l’atmosfera giusta per il bis. Il direttore indiano dopo cinque minuti di applausi manda tutti a casa, mentre fuori si scatena il temporale. Il ciclo mahleriano continuerà (si spera a questi eccellenti livelli) anche nei prossimi anni al Petruzzelli. Così almeno ha promesso Giandomenico Vaccari, Sovrintendente della nostra Fondazione Lirico Sinfonica.
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