"A cent'anni esatti dalla prima rappresentazione italiana torna a Bologna, che lo tenne a battesimo il primo gennaio 1914, il “Parsifal” di Richard Wagner. Allora fu un evento straordinario, che confermò l'amore per la città felsinea nei confronti del compositore tedesco, visto che proprio sotto le due Torri avvenne, nel 1871, il debutto assoluto di una sua opera in Italia, il “Lohengrin”. In questi giorni il grandioso, immenso capolavoro ispirato all'opera di Wolfram von Eschenbach (prima domani ore 19, repliche il 16, 18, 21, 23 e 25 gennaio) inaugura la stagione 2014 del Teatro Comunale.
Abbiamo assistito alla prova generale, in cui vocalmente hanno convinto il Parsifal di Andrew Richards, dotato di bel timbro e notevole presenza scenica (solo una piccola incertezza nel finale, peccato), la Kundry di Anna Larsson e soprattutto il Gurnemanz di Gábor Bretz, maiuscolo in tutti i sensi. Così come ci è parsa buona anche la direzione di Roberto Abbado, qui al suo primo Wagner che attendiamo di riascoltare in altre prove. Ma per stavolta più che l'esecuzione dal punto di vista musicale, ci preme parlare della resa scenica perché per quanto a tratti sconcertante (se si è puristi wagneriani, poi....) e assolutamente anti-tradizionale, ha fornito indubbi spunti su cui riflettere. A firmarla (regia, scene, costumi e luci) è Romeo Castellucci, recentissimo Leone d’oro alla carriera dalla Biennale Teatro di Venezia, che riprende la lettura proposta con successo nel 2011 al Thèâtre de La Monnaie di Bruxelles.
Il primo atto si apre nella foresta nei pressi di Montsalvat. C'è un serpente albino, metafora della musica di Wagner, che sembra danzare avvoltolato su un trapezio di fronte al ritratto, gigante, di Nietzsche, il filosofo che amò/odiò Wagner più di ogni altro. I cavalieri del Graal si nascondono nel bosco dove Kundry, la donna selvaggia, porta con sé dall'Oriente l'elisir che dovrebbe salvare il re Amfortas, custode del Graal e ferito a causa della sua voluttà dalla Sacra Lancia di Longino. Appare Parsifal che uccide il cigno, lui e Kundry si riconoscono e, forse, comprendono di amarsi perché accomunati dallo stesso destino, la follia. Il bosco, popolato di animali veri (oltre al serpente, un cane), è reso vivo e palpitante da un sapiente gioco di luci prima di scomparire in un grande buco nero originato dalla tremenda ferita di Amfortas, che si dilata a dismisura fino a fagocitare la scena e annichilirla.
Il secondo atto rompe completamente, anche sul piano cromatico e visivo, con il primo: il palazzo di Klingsor è quasi una morgue fredda, albina, col mago trasformato in direttore a capo di un inquietante gruppo di fanciulle-oggetto bianche come cadaveri, appese a testa in giù come pezzi di carne in un mattatoio. Sono legate, stile bondage, l'atmosfera fetish è ribadita dalle parrucche, il dominatore è lo stesso Klingsor con tanto di grembiule da macellaio. La visione è introdotta dalla descrizione, videoproiettata, di tanti veleni e droghe che distruggono l'ambiente e l'uomo dilatandone i sensi e facendogli smarrire ogni contatto con la realtà. Kundry, vestita di bianco anch'essa, riceve l'ordine di sedurre Parsifal. Il giardino magico dove l'eroe è atteso dalle fanciulle-fiore, è asettico, la bellezza delle ragazze frigida, non riesce a distrarlo nemmeno la presenza esplicita del sesso di una di esse in bella mostra come l'Origine del mondo di Courbet. Kundry, a sua volta legata e sola (lo scrive sulla parete: “me, tied”) ammannisce a Parsifal l'amor sensuale cercando di scacciare quello, filiale e platonico, per la madre morta, ma l'amplesso tra i due, videoproiettato in scena, resta un parto della fantasia. L'eroe si scuote ripensando alla sua vera missione e annienta Klingsor rigettandogli scontro la Sacra Lancia e trasformando il suo reame in un deserto.
Il terzo atto è ancora più essenziale. La desolazione che ha sostituito il giardino magico non è più solo quella conosciuta dai cavalieri del Graal, ma è quella dell'uomo di fronte a se stesso. Parsifal e tutta l'umanità (una grande folla sul palco) marciano sotto un cielo stellato (il rimando al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo sembra evidentissimo), il tema della Fede e quello della Profezia sembrano perdersi tra la moltitudine che eleva al cielo le mani come antichi oranti, persino la guarigione di Amfortas, operata da Parsifal tramite la stessa Sacra Lancia che un tempo lo ferì resta sullo sfondo, con i due personaggi che nel momento topico neppure si guardano. Risanato il re, con Parsifal nuovo sovrano del Graal, appare sullo sfondo una città capovolta mentre sulle note del tema della Fede cadono, dall'alto, alcune foglie che evocano la foresta primordiale perduta.
Abbiamo cercato di essere sintetici perché in realtà per commentare questa regia, e farne l'esegesi, occorrerebbero varie pagine. Ci limitiamo a evidenziare qualche tema che ci è parso emergere con maggiore chiarezza. L'ambiente – e l'uomo stesso che ne fa parte – distrutto dai veleni che egli stesso produce, la donna nella sua multiforme identità di Grande Madre, di sacerdotessa, di seduttrice ma anche di oggetto di piacere e dominio, la mancanza di punti di riferimento ideologici o spirituali, l'indifferenziata umanità senza colore, forma, religione, razza, identità, il senso di smarrimento, solitudine e sconfitta che è di Parsifal ma è anche dell'umanità di cui fa parte e in cui si confonde.
Se tante cose in più, nella lettura di Castellucci, rispetto ai significati del libretto ci sono, sono però altrettante le cose che mancano, e che invece sarebbero essenziali. Tutte riguardano – non a caso - la sfera religiosa e rituale: la lancia di Longino (che non compare mai), gesti significativi come la lavanda dei piedi e l'unzione di Parsifal, e soprattutto lui, il Graal. La regia lo trascura volutamente in quanto il Graal, ossia la conoscenza e la redenzione, è irrapresentabile, una sorta di chimera perduta e ineffabile che nessuno potrà mai né stringere né possedere. Parsifal, così, da potente eroe salvifico è trasformato in un uomo come tanti, un angelo caduto del tutto privo di retorica, fondamentalmente inutile al punto che, nella sua pochezza e fragilità, spaventa. La lettura onirica e visionaria del regista destruttura e decontestualizza, toglie ogni simbolo, disorienta. Ma alla fine rapisce. Il Parsifal vero, quello di Wolfram von Eschenbach e soprattutto quello che Wagner aveva in mente, è però, e per fortuna, tutta un'altra cosa."
bellissimo...... fai venire voglia di immergersi totalmente in questi due mondi...cosi vicini e cosi lontani Elena, delle due rappresentazioni, quella reale da te raccontata in modo quasi visivo (!) e quella "ideale" appunto spirituale e mistica, facendo sentire tra tutte le cose la più importante.....cioè l'assenza dell'ESSENZA (perdonami il gioco di parole). grazie vorrei che fossi qui vicina per conoscerti e parlarti, anzi, sentirti....nn credo mi stancherei mai.
RispondiEliminaMille grazie per il lusinghiero commento... E' stata una bella rappresentazione, sicuramente molto stimolante :) Ho ricevuto la tua richiesta su fb, benvenuta
RispondiEliminaRingrazio personalmente la medievista e critico musicale, dott.ssa Elena Percivaldi per averci regalato la sua preziosa recensione. Mi auguro che la collaborazione, appena cominciata, possa continuare, ne sarei davvero onorato.
EliminaGrazie a Te, Alessandro. L'onore di collaborare al Tuo blog sarebbe tutto mio :)
EliminaSei gentile Elena. Quando vuoi, se puoi :)
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