Qualcuno ha scritto che il melologo è limitato dal fatto
che il mélos tenda fatalmente a
prevaricare il lògos. Il problema
però è che è la musica poi, a determinare la bellezza o meno di un melologo.
Fabio Vacchi, ne ha scritti ben undici, ma non la pensa esattamente così:
"Ritengo che Mozart avesse proprio ragione: riteneva questa forma
l'incontro più alto della musica con la letteratura, dove nessuna era serva
dell'altra."
L'altra sera, durante l'affollatissimo concerto al
Petruzzelli (sold out annunciato, ma assolutamente non scontato!), abbiamo
invece capito, che nonostante i protagonisti della lettura, non fossero
entrambi dello stesso livello, la musica di Vacchi, sovrastava, o meglio prevaricava, con la sua
sublime bellezza tutto ed il suo, in un certo senso, corposo volume ciò che le stava sotto. Merito, di
una scrittura sempre limpida e tersa, con gli interventi sensuali del violino
(magistrale la prova di Paçalin Zef Pavaci) e del violoncello (il bravissimo
Andrea Vaccher) nel ruolo dei protagonisti, su un tappeto immenso di
percussioni e archi (70 strumentisti in tutto!). La recitazione della brindisina Sara Bevilacqua, una attrice
vera che sapeva comunicare più che bene le parole, e all'emozionato Gianrico Carofiglio,
autore del libro "Il bordo vertiginoso delle cose", che invece
leggeva con distacco, come si trattasse di un semplice reading pubblico e non di un vertiginoso melologo. Quaranta minuti
intensi, su di un testo nostalgico e amoroso dalle tinte ora forti, ora pacate,
ora serene. L'orchestra del Petruzzelli, diretta benissimo e con ammirevole lucidità da John Axelrod, ha
colto in pieno il linguaggio variabile e raffinato di Vacchi, dove il Novecento
è rivisitato "sinfonicamente" con disinvolta scioltezza, plasticamente
carpito nei suoi momenti salienti e necessari (si pensi, "in primis" a Stravinskij e Messiaen, a Debussy e Boulez).
Il pezzo forte della serata, era però, va esplicitamente
detto, il concerto n. 2 per pianoforte e orchestra di Sergej Rachmaninov,
capolavoro popolarissimo e che non ha certo bisogno di particolari presentazioni,
tanto è stato citato dal cinema e dalla stampa per anni. Rendere tale
capolavoro al meglio, e cioè in un equilibrio formale che non sconfini nel
mieloso sentimentalismo, ma trattenga le lacrime sino alla fine, è compito
estremamente arduo. Benedetto Lupo è pianista immenso, di per sè dotato di
ragguardevole talento tecnico ed espressivo, nella sua attesa lettura ha posto l'accento
sulla grande poesia del concerto,
coniugata con lancinanti, ma mai languidi, squarci di romanticismo. Splendido il
controllo e la naturalezza sulla tastiera, non sempre però, va detto, aiutato dall'Orchestra
e da Axelrod, talora in sordina e (quasi) mai protagonisti del turgido sound indispensabile alla partitura. I
tempi poi, un po' arbitrari, alle volte, hanno lasciato un po' di stucco più di
qualcuno. Soprattutto nel secondo movimento, frenato più del dovuto, a mio
sommesso parere, dal direttore americano. Una pagina del genere ha tanti e tali
confronti con leggende pianistiche e direttoriali del passato, che non ci
sentiremmo proprio di affermare con certezza di aver ascoltato un'interpretazione
di riferimento o, meglio, da incorniciare. In ogni caso, le ovazioni sincere e
gli applausi scroscianti, che si sono riscontrati alla fine, danno indubbiamente
ragione a Lupo e ad Axelrod. Benedetto, è parso "quasi" costretto a dire
il vero dal clamore degli applausi e
dallo stesso maestro, a fare un bis raffinato ed incantevole. In ottobre,
il 24, tornerà Daniele Rustioni in compagnia dell'allieva prediletta proprio di
Benedetto Lupo, la bravissima Beatrice Rana. Concerto da non perdere. Speriamo in un
grande pubblico come quello di martedì sera.
La foto è di Carlo Cofano.
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