giovedì 9 ottobre 2014

"Trionfale il Guglielmo Tell di Rossini a Bologna" di Elena Percivaldi



Dieci minuti di applausi e trionfo personale per Michele Mariotti, osannatissimo dal pubblico insieme a tutto il cast. Al Comunale di Bologna ieri sera si dava, dopo quasi sessant'anni – mancava dal 1957, sul podio c'era Molinari Pradelli – e per la prima volta nell'originale in lingua francese il“Guillaume Tell” di Rossini: lavoro complesso, lunghissimo (nella versione filologica dura quasi 5 ore, intervalli compresi), vocalmente impegnativo e come da prassi con balletto. Ed è stata sicuramente una rappresentazione degna di nota, sia sotto il profilo musicale che per la proposta, a tratti decisamente ammaliante, della regia di Graham Vick. Partiamo da qui per dire che a nostro modo di vedere Vick ha sapientemente saputo interpretare le dinamiche di una partitura rossiniana che tra tutte, anche per il suo essere l'ultima e più matura sua composizione per il teatro, è la più ricca di sfumature. Tutto ruota attorno a quattro elementi: la terra, le radici, la casa, la patria. Il primo atto, con gli svizzeri intenzionati – dopo le feste di nozze da toni pastorali - a ribellarsi all'oppressore straniero, è dominato dai movimenti potenti delle masse. Il motto è “ex terra omnia”, tutto proviene dalla terra: gli svizzeri sono il popolo della terra, gli austriaci oppressori coloro che la negano e la violentano. Costringono questa specie di “elfi” a vivere in un mondo estraneo e artificiale e li riprendono, umiliandoli, per il loro becero divertimento. Solo una rivoluzione potrà riportare l'ordine giusto delle cose, ripristinare i valori e il mondo naturale. Ed è quello che accadrà.
Il secondo atto è diviso in due: una parte, intimista ed elegiaca, esalta nella semplicità della scena luminosa di bianco i duetti amorosi Arnold/Mathilde; la seconda si incupisce e l'artefatta teoria di cavalli finti che dominava la scena viene simbolicamente scomposta dai ribelli in tre mucchi - uno per ciascun cantone partecipante: Schweitz, Uri, Unterwalden- al presagire della rivolta. Chiude il virile terzetto in cui Tell, Arnold e Gualtiero giurano in nome degli avi di abbattere l'oppressore. Il terzo atto, che si apre con uno dei cavalli bianchi decapitato e la scena imbrattata di sangue, ha come acme la famosissima scena della mela (preceduta dalla festa in cui i sudditi vengono umiliati dai potenti, con relativo balletto). Il quarto atto è il più intenso di tutti: si apre con Arnold che ricorda il padre assassinato dal tiranno guardando frammenti della sua infanzia contadina proiettati sullo schermo, segue il ritorno di Jemmy liberato da Mathilde e il segnale dell'insurrezione dato incendiando il tavolo a simboleggiare la casa/patria, poi la tempesta e la rivolta proiettati sul megaschermo in controluce e l'epilogo con Jemmy che ascende una monumentale scala rossa proiettata verso il cielo nell'apoteosi finale.

Non si è forse mai detto abbastanza che il vero protagonista dell'opera non è tanto il pur eponimo Tell, pescatore-eroe artefice della vittoriosa riscossa del suo popolo, quanto il giovane Arnold, che subisce nello svolgersi del dramma una vera e propria metamorfosi: da trasognato amato/amante a patriota fervente, con tutti gli annessi e connessi del caso. E lo dimostra anche il trattamento vocale a lui riservato, curatissimo e denso di acuti al limite. Il ruolo è arduo e nella prassi è solitamente interpretato da tenori drammatici, mentre richiederebbe la leggerezza e l'elegia tipica dei tenori francesi sul modello di Adolphe Nourrit, per il quale il ruolo fu concepito (o tutt'al più per il successivo Gilbert-Louis Duprez che plasmò ulteriormente il personaggio). Ieri sera Arnold ha ritrovato questa aderenza filologica grazie anche alla lettura di Michael Spyres: di lui diremo che ha buona intonazione, gradevole timbro, arriva agli acuti ma la voce è forse un tantino leggera e nei momenti di insieme sparisce. Buone, nel complesso, le prove anche di tutto il cast, soprattutto Carlos Alvarez nel ruolo del titolo, la dolce ma risoluta Mathilde di Yolanda Auyanet, l'incisivo piccolo Jemmy di Mariangela Sicilia. Ottimo anche il coro. Splendido il balletto del terzo atto con le coreografie di Ron Howell, che ha magistralmente messo in scena l'abiezione della tirannide, il senso di drammatica impotenza cui soggiace il debole vessato dal potente, la sottrazione della dignità agli oppressi, ridotti a mere marionette. La regia ha mostrato i punti estremi al quale può giungere un'umanità impegnata a prevaricare, nell'esaltazione dell'artificio al parossismo, la natura e i valori che essa sottende. Solo una catastrofe, in senso greco di “rivolgimento” e “ripensamento”, una “rivoluzione” appunto, può portare di nuovo all'ordine giusto delle cose e all'equilibrio. E solo una catastrofe (è pessimismo o prospettiva apocalittica?) può permettere all'umanità, autoviolatasi e votata all'abiezione e alla miseria, di ritrovare, finalmente, se stessa.

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