"Di
Stefano è forse uno degli ultimi, se non proprio l’ultimo tenore che, a pieno
titolo, ha rappresentato un’epoca in
cui il modo di cantare, anzi, di
intendere il canto in senso più esteso, è stato soppiantato dalla ricerca “timbrica” fine
a se stessa in nome di un tecnicismo, più che di una vera e propria tecnica di canto, sempre più finalizzato al
divismo da stadio.
Mi si passi l’immagine volutamente forte, ma che l’Opera
manifesti un periodo di crisi è sotto gli occhi e le orecchie di tutti:
cantanti di talento discutibile ma di bella immagine, produzioni teatrali
caratterizzati da regie perlomeno oltraggiose, direttori incompetenti. Il
problema è che non si pensa più al libretto d’opera nel suo significato più intimo,
né alla rappresentazione teatrale come
un momento di incontro tra musica e scenografia che sottolinei la sacralità artistica
di una certa tradizione che poi è la nostra, invidiata in tutto il mondo.
Il
cantante di oggi tende ad essere prima un’"impiegato della musica” e se
gli bene, dopo, una star sul modello del pop perché il melodramma può ancora
lanciare divi, ma sempre più nell’interesse di questi ultimi e dei loro agenti,
complici le stesse vecchie volpi della lirica- non vogliamo fare nomi- che
indulgono assai spesso a duettare con miti della canzonetta sino a diventarlo
loro stessi.
Quasi
mai un tenore o un soprano si trasforma
in un'artista capace di "osare", di esporre il proprio intimo allo
scoperto, di lasciarsi andare sull’onda interpretativa anche a rischio della stecca, ma questa è la condizione senza la quale non si
può essere artisti!
Orbene, Di
Stefano aveva impresse in mente le intenzioni di Verdi: "L'arte del
canto, in parole semplici è l'arte di unire i più bei suoni della tua voce
all'articolazione della parola, nel canto e nei recitativi per ottenere tutti
quei colori richiesti dal poeta, dal musicista, e dal direttore d'orchestra. Ma
occorre avere dell'anima: cioè un temperamento musicale e teatrale di primo
ordine, per poter fondere il tutto in un fatto espressivo, artistico."
Con
queste parole Di Stefano apre il suo unico libro “l’arte del canto (ed. Rusconi)”.
É
molto chiara la sua visione del canto nella quale l'istinto è tutto. Secondo la
sua visione, un'ottima voce che non sia
supportata da un "istinto adeguato" è destinata a non lasciare alcuna
traccia.
Nella
sua formazione giovanile Di Stefano ha avuto la fortuna di conoscere e lavorare
accanto a giganti canori carpendone i segreti, tra cui : Beniamino Gigli (con il
quale fece una turnee in Argentina), Tito Schipa, che considerava un suo modello
insieme a Fleta e Aureliano
Pertile. Faceva parte, come dicevo poc’anzi,
di una epoca in cui cantarono i migliori artisti del dopoguerra dei quali era
amico e con i quali si confrontava. Basti ricordare Franco Corelli, Mario del
Monaco, Tito Gobbi ( tanto per citarne alcuni) e soprattutto Maria Callas, che
fu per lungo tempo sua partner artistica al punto che il duo Callas/Di Stefano
ricordava nei melomani quello di
Schipa/Toti Dal Monte. Per far capire l’artista Di Stefano bastino le sue parole: " Un personaggio non
lo si può spiegare lo si deve sentire, nella musica e soprattutto nelle parole.
La tecnica di oggi è monocolore invece la voce è come un viso, i cantanti di
oggi non hanno viso, e quando esci dal teatro dopo aver visto e sentito
un'opera, ti chiedi che opera era."
La
critica ha spesso travisato e contestato questo modo di sentire il melodramma.
D’altronde il grande Pippo era unico nel panorama internazionale e questo
generava invidie. Ai critici puristi non piaceva il suo canto “aperto” e
solare, che ritenevano l’unica causa di un prematuro declino, senza considerare
gli enormi meriti artistici che, con “quel” modo di cantare, Di Stefano si era
guadagnato fin da giovanissimo e che comunque gli garantì,ì- detto modo di
cantare- una carriera di circa 4 decadi.
Giuseppe di Stefano non era neppure disciplinato: fumava, apprezzava i
conviviali e le belle donne. Non fu mai un cantate “secchione”, per usare sue
metafore del libro. Anzi, era tutto l’opposto. Era semplicemente
un cantante vero, capace di virtuosismi impensabili (il suo do filato
del Faust è considerato una O di Giotto canora e moltissimi che cercano ancora
oggi di imitare questo nobilissimo colpo di cesello- pur non scritto- spesso si
infortunano. Lo stesso Corelli, fine artista prima che grande cantante, filava
al massimo un si bemolle) e di grande e travolgente impeto passionale. I suoi detrattori che gli imputano di avere
sbagliato repertorio, ad un certo punto della carriera, per essere passato al
verismo e al genere drammatico da tenore lirico puro quale egli era, si devono
arrendere alla straordinaria bellezza della sua interpretazione in Cavalleria
Rusticana, Tosca, Turandot e, mi si passi, anche Otello (si ascolti il suo Niun
mi tema).
Di
Stefano ha avuto il grande merito di portare la Scuola Italiana del Bel Canto
ai suoi massimi vertici, con uno stile di canto legato alla declamazione,
all'articolazione del testo, e al chiaroscuro nella
fraseggio.
Nelle
sue incisioni degli anni '40 mai una vocale viene artefatta, una A rimane una A
in tutta la tessitura, senza mai scurire, appesantire o affondare. Nel libro
esprime la sua irritazione per il fatto che nel canto lirico- laddove nella
prosa non si ammetterebbe mai che un attore dica “ti omo” al posto di “ti amo”-
nel canto lirico, dicevo, ciò è ritenuto normale. Quando cantava Di Stefano, si
capiva ogni parola. Ancora oggi non si comprende che il grande pubblico non si
avvicina all’Opera più di tanto proprio perché non riesce a capire cosa stiano
cantando sul palco! Ma in Di Stefano ogni frase cantata abbina un'emmissione pressoché perfetta ad un'articolazione del testo da manuale. Il
cantare sulla parola significa darvi significato e nel contempo darlo anche
alla musica dalla quale viene rivestita. I compositori d'opera desideravano più
di ogni altra cosa che l'interprete privilegiasse il significato del testo e
l'interpretazione drammatica rispetto alla “bella emissione" e alla
"bella voce". Molti cantanti per le loro doti sceniche venivano
preferiti a molti altri che pur cantando meglio trovavano più difficoltà ad immedesimarsi nella psicologia
del personaggio. Dice Di Stefano: " Nella canzone, è racchiuso nel
breve spazio di 3 minuti tutta una storia, questa va "detta"
perché il
pubblico la capisca aldilà degli effetti di voce, delle filature e degli
acuti. Secondo me nell'opera viene prima il libretto, i mezzi del cantante sono
due: il suono e la parola. La parola serve a far capire il dramma, altrimenti
si fa musica sinfonica. Il pubblico dell'opera va per la storia, si commuove,
vuole partecipare. Come partecipa? Non soltanto grazie a belle voci."
Con
Di Stefano siamo di fronte ad un cantante che ha saputo inseguire, con pura
volontà,
un'ideale di bellezza: " Io non vado a teatro per ascoltare
virtuosismi: eppure li ho fatti tutti. Ho fatto cose incredibili, ho fatto quel
che faceva Manuel Fleta, con misura musicare e gusto preciso. Ho fatto tutti
gli effetti, tutte le acrobazie del tenore, ma non mi potevo accontentare di
uno strumento capace di garantirmi un facile successo Facevi una filatura e
quelli lì impazzivano. Con gli anni sono andato avanti. Porta ila mia voce al
punto di levare qualsiasi ombra di tecnica: a far uscire la voce in maniera
naturale. Questa è la tecnica più bella. Il massimo del virtuosismo è cantare
facendo dimenticare che stai cantando."
Tra
i tanti talenti che hanno stupito ed emozionato, quello di Di Stefano rimane
forse la più rappresentativa reincarnazione di un perfetto spirito teatrale.
Egli seppe fare infiammare le anime con una voce bella e capace di numeri
funanbolici. Ma soprattutto egli volle ammaliare il pubblico con un canto tutto
giocato sulla parola, in cui il suo grande istinto musicale gli permise di
fondere accenti lirici e piglio drammatico. Per questo, quando lo si ascolta
non si considera la singola nota o battuta, notoriamente difficoltosa. Ma tutto
risulta ugualmente importante e ricco di significato, impareggiabilmente bello.
Anche quando la sua voce ha cominciato a perdere parte del suo smalto, la sua
stupefacente capacità interpretativa
ha continuato a produrre risultati indimenticabili: commovente la Forza del
Destino data Vienna 1960.
Diceva
con saggezza Verdi: " Il pubblico ammette tutto in teatro fuorché la noia, meglio i fischi."
Nadege Bruni
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