Un successo sincero e vibrante quello tributato l'altra sera dal pubblico della Fondazione Petruzzelli, ad uno spettacolo del calibro di "Ballett for Life" con le coreografie di Maurice Bejart che, a ragione, è ormai entrato nella Storia della Danza Contemporanea degli ultimi anni. Chi scrive non è un esperto di danza e si affida in questo caso, condividendola, alla bellissima recensione di Valentina Bonelli apparsa nel 2004 e che sa illustrare ed esplicare al meglio la straordinaria perfezione di questo spettacolo, complici i bravissimi danzatori del Bejart Ballet Lausanne diretti da Gil Roman. Eccola di seguito nella sua integrità:
"Da magnifico seduttore qual era, insuperabile nel restituire nella veste spettacolare più ammaliante ogni suggestione culturale, storica, etnica che accenda di volta in volta la sua onnivora curiosità, Maurice Béjart non poteva omettere di colpire al cuore, con un sontuoso balletto-rock, anche le giovanissime generazioni. L’ha fatto a suo modo, mescolando come sempre gli accade citazioni colte e motivi pop, musica alta e canzoni leggere, levigato neoclassicismo sulle punte e fremiti stilistici di odierna radice, costumi da prova minimalisti e abiti post-moderni griffati Versace. La duplice anima dello spettacolo si annuncia sin dal titolo: Le Presbytère n’a rien perdu de son charme, ni le jardin de son éclat, ermetico scioglilingua di musicale sonorità tratto da Le mystère de la chambre jaune, romanzo poliziesco di Gaston Leroux, il cantore popolare della belle époque francese. Bizzarra parola d’ordine di Rouletabille, il detective protagonista, la melodiosa frase fu un segreto diletto verbale per i surrealisti francesi, mentre per Béjart, che non rinuncia al piacere della citazione dotta, la scelta del titolo non ha legame alcuno con l’accezione dello spettacolo, ma è conchiusa nel fascino della sua bellezza poetica. E se la lieve dolcezza del titolo non sembra preludere allo show fragoroso e abbacinante che racchiude, dall’estetica pop e dalla facile immediatezza dello spettacolo si è spontaneamente originato un sottotitolo di asciutta contemporaneità: Ballet for life. Mentre ad accendere sin dall’inizio su Le Presbytère...! le luci dello show - seppur segnato dagli eleganti confini del balletto moderno - è la scelta musicale, concepita da Béjart come la colonna sonora di un musical, con canzoni di successo susseguentisi in crescendo. L’effetto è splendida-mente ottenuto con le più celebri hit del gruppo inglese dei Queen - It’s a beautiful day, Time, A kind of magic, Radio gaga, I want to break free, fino all’apoteosi finale di The show must go on - tra i quali si schiudono, all’improvviso e per brevi squarci intimi, le divine melodie mozartiane delConcerto 21 C o della Marcia Funebre.
E per la prima volta Béjart lancia i suoi ballerini semidei, le ragazze dalla bellezza luminosa e gli efebici ragazzi, su di un’impervia partitura rockeggiante, sulla quale la sua elegante scrittura neoclassica non solo non stride, ma si apre a nuovi, acrobatici virtuosismi. Per l’ensemble, così come per i solisti: l’uno a contrappuntare con ampio respiro il florilegio di assoli, pas de deux e pas de trois che costellano lo show, gli altri a brillare in folgoranti cammei di trascinante possenza. Perché con Le Presbytère...!Béjart ritrova anche quella grandiosità di tono che sembrava aver abbandonato per sempre dopo lo scioglimento del leggendario Ballet du XXème Siècle, la costituzione del più piccolo Béjart Ballet Lausanne e la sua ulteriore riduzione a una trentina di elementi. L’occasione è troppo importante perché il vecchio leone Béjart rinunci all’attitudine di gridare, alle più vaste platee, i suoi messaggi di universale ambizione, che lascino intravedere, in controluce, la ricca trama del suo personale vissuto. Ecco allora che con Le Presbytère...! il dolore intimo e privato per la perdita di Jorge Donn – ballerino e uomo amatissimo morto di Aids - si sublima in uno spettacolo di timbro magniloquente, ove le lugubri allusioni alla malattia e alla morte che sembrano ombreggiarlo vengono quasi spazzate via dai ballerini di Béjart. Merito, ancora una volta, di quell’ecumenismo della bellezza e della giovinezza che nel coreografo di Marsiglia, a dispetto di tutto, non ha mai vacillato, della forza e dell’ottimismo di quell’ideale enclave multirazziale che è stato il Ballet du XXème Siècle un tempo e che è oggi il Béjart Ballet Lausanne, ovvero le felici rappresentazioni in miniatura del reale mondo esterno. Ma questa volta il fiero esibizionismo di un coreografo star come Béjart si ferma davanti al pudore del proprio dolore, custodito nei tanti anni che lo separano ormai dalla morte dell’amato Jorge Donn con un silenzio duro e toccante, mentre il solo pronunciare quel nome basta a rompere in lui il riserbo della commozione. Parimenti, incapace di esporre sulla scena, per tutto il tempo del balletto a lui dedicato, l’idolo Jorge Donn, Béjart manda avanti al suo posto un uomo dello schermo: Freddie Mercury, il leader dei Queen. Morto come Donn di Aids, anch’egli quarantacinquenne, e ad un solo anno di distanza, oltre alle coincidenze che per Béjart hanno la valenza magica dei segni, Mercury uomo e artista non poteva non suscitarne l’interesse. Il cosmopolitismo stregato dall’Oriente di Béjart ha voluto trovare il fascino misterico della pop-star inglese nelle sue radici mediorentali: nato a Zanzibar e vissuto in India ma di origini iraniane, Farouk Bulsara – questo il suo vero nome - apparteneva a una famiglia della setta dei «parsis», i persiani adoratori di Zaratustra, che alla sua morte gli riservarono una cerimonia funebre officiata da sacerdoti zoroastriani. Ma come ha dichiarato lo stesso Béjart, ad affascinarlo della personalità di Mercury furono soprattutto la stessa grinta, la stessa voglia di vivere e di mettersi in mostra che anche Donn possedeva, tanto da fargli avvertire, sospesa tra i due, un’«affinità baudelairiana». Ma se Mercury appare riconoscibile in ogni quadro dello spettacolo dietro gli eccentrici travestimenti con la bandiera inglese, la tiara e lo scettro da regina, le parrucche femminili o il chiodo in pelle, la presenza inquieta di Donn si ravvisa invece aleggiante sull’intera trama coreografica, per leggersi con assoluta chiarezza negli assoli maschili a torso nudo che Béjart sembra aver pensato per lui. Mentre baluginano qua e là la sensualità accesa e trasgressiva, la bellezza da divinità greca sospesa tra apollineo e dionisiaco, una febbre di vita e una generosità nel donarsi che sembravano divorarlo anche sulla scena. Nei tanti balletti che Béjart creò per lui: La Nona Sinfonia, Romeo e Giulietta,Messa per il tempo presente, o ai quali l’argentino arrivato come un dono nel cuore del Ballet du XXème Siècle diede nuovo fervore: La Sagra della Primavera, e ancor più Bolero, di cui fu il primo interprete maschile, fissato per sempre dal film di Leluch. Così i cimiteriali sudari, le barelle d’ospedale, i seducenti angeli della morte, una sposa in nero, le ambigue promiscuità, i convegni fugaci di Romeo e Giulietta nell’era dell’Aids e i tanti altri simboli sinistri del balletto, non possono nulla contro la fisicità iperrealistica dell’immagine di Jorge Donn, che invade infine la scena palpitando da uno schermo immenso. Con la maschera tragica e grottesca di Nijinskij, clown de dieu, memoria non casuale di un altro dio della danza strappato troppo presto alle scene, e anche allora dalla malattia. Raccolti intorno all’effigie di Donn in devoto silenzio, i giovani ballerini del Ballet Lausanne, che forse neppure l’hanno conosciuto, insieme ad un commosso eppur sempre ottimista Béjart, siglano infine con una giubilante passerella la spettacolare messa laica che hanno appena celebrato."