“Oggi vorrei parlarvi
soprattutto di felicità, perché ognuno di noi ha mille ragioni per soffrire ma
anche di sperare che la nostra vita possa cambiare, che un giorno potremo
essere felici, a qualsiasi età. Io, ad esempio, tutte le sere scrivo il mio
discorso di accettazione dell’Oscar, tutto in inglese, conciso ma perfetto,
sicuramente il miglior discorso mai pronunciato. In questa spudoratezza del
sogno, si riesce a sopravvivere alle ingiustizie”.
Non ha più parlato di felicità, Pupi Avati (nella foto) nella sua Masterclass al Teatro
Petruzzelli, moderata da Enrico
Magrelli e preceduta dalla
proiezione di “Una gita scolastica”. Ma ha sicuramente regalato tanta felicità
al pubblico per quella che, più che una lezione, è stata una vera e propria
performance, con lui irritualmente in piedi sul proscenio del palco a
inanellare aneddoti sulla sua carriera e sui suoi incontri di una vita, uno più
travolgente e applaudito dell’altro.
È partito da quando,
ragazzo di provincia, timido, complessato e non simpatico scoprì che attraverso
la musica, in particolare il jazz, poteva finalmente conquistare le tanto
agognate ragazze. Finché un giorno si rese conto che il clarinetto gli piaceva
di più e che attraverso lo strumento poteva realizzarsi.
“Diventai il più bravo
clarinettista di Bologna, ero entrato in un’orchestra formata perlopiù da
ginecologi che faceva molte tournee, anche all’estero. Un giorno, però, il capo
dei ginecologi mi affiancò un altro clarinettista, un piccoletto brutto e che
suonava da schifo ma che sera dopo sera seppe progredire fino a diventare più
bravo di me. Allora io non contai più niente, cominciai a pensare di non
suonare più, ma iniziai anche a odiare quel ragazzo che un giorno portai in
cima alla Sagrada Familia di Barcellona, pensando di buttarlo giù. Si chiamava
Lucio Dalla e quando finì la nostra competitività, negli anni diventammo grandi
amici, ha scritto anche le colonne sonore di due miei film.”
Tra il racconto di come
ha conosciuto la moglie (“Finsi che era il mio compleanno per ottenere il primo
bacio, ora siamo sposati da 52 anni ed è la depositaria di tutto quello che
sono e che ho fatto”) e un giudizio sulla situazione del cinema italiano (“Non
lo va a vedere più nessuno, la crisi mi sembra definitiva dal momento che vanno
male anche quei film che vengono prodotti per andare bene, quelli giovanilisti.
Forse bisogna riconsiderare il cinema di genere come scelta coraggiosa e
alternativa”) sfilano le storie e i volti di grandi protagonisti.
“La scelta di Katia Ricciarelli
per ‘La seconda notte di nozze’ fu casuale, durante un pranzo con mio fratello
Antonio e Maurizio Nichetti, che avrebbe dovuto dirigere il film, eravamo
praticamente ubriachi e spuntò fuori il suo nome. Non aveva mai recitato ma io
mi dissi ‘Se aveva sposato Pippo Baudo potrà pure fare anche la vedova!”. I
primi giorni sul set furono un disastro ma poi entrò talmente bene nella parte
che vinse il Nastro d’Argento come migliore attrice protagonista.”
Su Vittorio De Sica:
“Doveva dirigere un film su Rodolfo Valentino che poi fece Ken Russell e il produttore, che era il
regista Sandro Bolchi, mi chiese se potevo fargli da aiuto regista, dal momento
che era già malato. Andai ad incontrarlo, mi presentai e lui mi chiese di
dov’ero. ‘Di Bologna, risposi’. ‘Allora va benissimo’, disse lui. Tutto qui. Fu
la prima e ultima volta che lo vidi”.
“Trasferitomi a Roma da
Bologna, volli conoscere Federico Fellini del quale avevo tanto amato ‘8 ½’ e
quando mia madre mi disse che abitava vicino casa mia, per tre giorni lo
pedinai nelle sue passeggiate finché non trovai il coraggio di avvicinarlo.
All’inizio era spaventato, perché si era accorto che lo stavo seguendo, ma poi
si sciolse, mi abbracciò e finimmo per diventare grandi amici. Mi invitava
sempre alle proiezioni private delle copie lavoro dei suoi film, lo fece anche
per il suo ultimo ‘La voce della luna’ e ricordo come, durante la proiezione,
telefonava più volte a Giulietta Masina per conoscere le nostre reazioni. Per
dire come anche un grande come lui, alla fine della sua carriera avesse una
dipendenza psicologica dagli altri”.
“Sul set del mio secondo
film, ‘Thomas e gli indemoniati’, un giorno si presentò sul set una ragazza al
posto dell’attrice che avevo scelto dopo circa 200 provini e che era molto
differente dalla tipologia cui pensavo per il personaggio. Io la cacciai
malamente e lei passò l’intera giornata fuori dalla chiesa sconsacrata dove
stavamo girando. Alla fine mi impietosii e le detti il copione, convocandola
per il giorno successivo. Quando fu il suo turno, lasciò tutta la troupe a
bocca aperta. Vedendola recitare ho visto per la prima volta cosa fosse la
verità. Si chiamava ‘Mariangela Melato’.
Sul suo futuro: “La vita
ha una sua circolarità, si arriva a un certo punto in cui diventa importante
ricordare, allora prima si prova nostalgia per la giovinezza e poi per
l’infanzia. Io sono in quest’ultima fase, in cui ripenso al cinema che ho tanto
amato da bambino, il cinema fantastico con il quale ho poi debuttato e che è
tornato a sedurmi. Ho riaperto quindi il cassetto dell’immaginazione e dei
racconti che mi facevano i contadini, dominati dalla presenza del Male e dalla
paura che suscita. Nel mio prossimo film racconterò la storia di due bare che
scomparvero nel nulla dopo l’alluvione del Polesine del 1951, le uniche che non
furono mai recuperate”.
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