martedì 20 gennaio 2015

"Alla Scala “Die Soldaten”: Hermanis e Metzmacher esaltano una sublime opera "tritacarne” di Elena Percivaldi


Venticinque cantanti solisti e un’orchestra sterminata che dalla buca si espande nei palchi: in tutto 112 professori inclusi 15 percussionisti, 4 dei quali sui i palchi doppi nei palchi e sei (Stage Bands I, II e III) nella Sala Prove dell’Orchestra e riprodotti live in sala da altoparlanti collocati nel soffitto. Infine un complesso “Jazz Combo” di 4 elementi collocato in barcaccia. Queste sono le cifre, nude e crude ma eloquenti, che hanno caratterizzato la prima milanese di“Die Soldaten”, il capolavoro operistico di Bernd Alois Zimmermann (1918-1970). Un lavoro difficilissimo, terribile, lacerante, di una complessità inaudita. Ma che ha impressionato per la capacità di veicolare tramite la musica (per quanto atonale e quindi per il vasto pubblico non certo semplice e familiare) tutte le tensioni, le tragedie, i terrori, l'impotenza dell'uomo del Secolo breve.
Il testo deriva da un lavoro di Jakob Lenz (1751-1792), lettone cresciuto a Königsberg ed esponente originale, purtroppo negletto, dello Sturm und Drang. Fu un intellettuale geniale, ma anche un cane sciolto, un uomo problematico e tormentato che finirà per litigare con Goethe(e separarsi da lui, che pure gli aveva garantito la sua amicizia, in modo improvviso e brusco) e fuggirà a Mosca , dove farà il mediatore culturale tra tedeschi e russi. Fino alla tragica fine: sarebbe stato trovato riverso per strada, in una notte di maggio. Il suo corpo sepolto chissà dove.
Zimmermann, anch'egli uomo tormentato (rinunciò alla carriera ecclesiastica, visse di espedienti e fece musica di ogni genere, infine morì suicida) venne a contatto col testo nel 1957 grazie all'allora direttore dell’Opera di Colonia, che gli suggerì di musicarlo. Nacque così, con un lunga gestazione fatta di ripensamenti, “Die Soldaten”, la cui prima andò in scena con successo proprio a Colonia il 15 febbraio 1965. Nonostante Wolfgang Sawallisch, che avrebbe dovuto dirigerla nel 1960, l'avesse bollata come “irrappresentabile”.
In effetti di questo gigantesco, mostruoso capolavoro la rappresentazione è veramente ardua, ai limiti dell'umano. E ciò stride se si pensa che la vicenda è in sé banale. E' la storia della giovane Marie, borghese promessa a un giovane che l’ama e che viene sedotta da un ufficiale che poi non manterrà le promesse. Passando da un soldato all'altro, la ragazza perderà l'onore e cadrà sempre più in basso. Fallirà anche l'unica possibilità di riscatto offertale dalla Contessa de la Roche, madre del giovane conte che la frequentava, prendendola come dama di compagnia. Stuprata da un ennesimo soldato, Marie finirà a mendicare per strada e non sarà riconosciuta nemmeno dal suo stesso padre.
Zimmermann, ricusando il lieto fine previsto da Lenz con la ricongiunzione della figlia col genitore, rende la vicenda una metafora potente ed eterna dell'ingiustizia, della solitudine e della disperazione dell'uomo. Un grido primordiale e belluino, amplificato fino al parossismo da una musica scomposta, algida, stridente. Dove tutti siamo vittime e carnefici. Dove non c'è speranza né redenzione. Dove neanche l'organo di una chiesa, nemmeno le note echeggiate di una corale bachiana possono offrire conforto. Dove la coscienza, laddove esiste (nella storia è impersonata dal cappellano militare), resta sempre inascoltata. E dove anche l'urlo più forte è destinato a spegnersi nel silenzio. Zimmermann ha previsto, rompendo ogni unità aristotelica, che il tempo dell'azione – fatto salvo il luogo, le Fiandre - fosse “ieri, oggi e domani”: perché l'uomo, disperato solo e annichilito, innocente e colpevole di fronte al peccato che è suo e di tutti, lo è e lo sarà sempre.
Al di là del testo, ciò che rende questo lavoro speciale, terribile e sublime è comunque la partitura, che però per detonare al massimo il suo potenziale devastante deve avere come catalizzatore una regia di assoluto livello. E così è stato, alla Scala e prima ancora a Salisburgo (dove l'opera è andata in scena in coproduzione sempre con la Scala durante il Festival 2012), grazie a un duo d'eccezione: il regista Alvis Hermanis e il direttore d'orchestra Ingo Metzmacher. La lode va a entrambi, a tutti e al neosovrintendente scaligero Alexander Pereira che l'ha fortemente voluta sotto la Madonnina. Il pubblico milanese ha apprezzato. E con questa rappresentazione – e non temiamo la retorica – finalmente il Piermarini è ritornato a rivestire il ruolo che gli spetta: ossia quello di grande teatro internazionale, laboratorio di idee e di prodotti di assoluto livello intellettuale, culturale e artistico, che può ancora fare la Storia.
E veniamo allo spettacolo. “Die Soldaten” malgrado il titolo ha poco a che fare con la guerra, che è solo un pretesto. Perché si sa, dove c'è guerra ci sono soldati e dove si sono soldati ci sono le loro primarie necessità da soddifare, tra cui il divertimento e il sesso. Tutto o quasi ruota attorno al sesso in questo allestimento, ma (e sia detto a lode del regista) non vi è mai, dicesi mai, alcunché di forzato e volgare. La scena è una grande scuola di equitazione (a Salisburgo era stato presentato nei vasti spazi della Felsenreitschule), qui ricreata su due registri utilizzando le immense possibilità del palco. Davanti alla vetrata si trovano in simultanea tutti i “luoghi” dell'opera: la stanza di Marie, il salotto borghese di Stolzius, il caffè dei soldati, il privé della Contessa. Dietro, cavalli veri si muovono e sono cavalcati da veri soldati e amazzoni. Le scene di seduzione, gli amplessi, persino lo stupro di Marie avvengono tutti o in una sorta di cabina trasparente – che si muove sospinta dai protagonisti sulla scena qua e là sul palco – oppure nel pagliaio dove trova requie la soldataglia. L'erotismo è sempre presente, anzi è il vero motore mobile delle vicende. Si parla sguaiatamente di amplessi. Le donne sono tutte etichettate come sgualdrine. I soldati si masturbano in gruppo spiando Marie e pensando a chissà cosa. Sulle pareti ci sono videoproiezioni di bordelli d'epoca. Ma questa fallocrazia dai tratti bestiali e primordiali non è fine a se stessa: rimanda per via metaforica a un passato arcaico, quando il matriarcato fu sconfitto per la prima volta proprio da questa nuova visione del mondo militarizzata e virilizzata, che faceva della conquista e della guerra i suoi motivi di rivalsa e di trionfo. La donna passò da dea a oggetto. E precipitò per sempre.
Scene, luci e video (che si devono rispettivamente al regista coadiuvato da Uta Gruber-BallehrGleb Filshtinsky e Sergey Rylko) sono tutti estremamente efficaci, così come molto belli sono i costumi di Eva Dessecker che riportano, come l'ambientazione, a un generico inizio Novecento, forse la Prima Guerra Mondiale, che coincide, guarda caso, con il primo conflitto di massa concepito e condotto con tecniche “moderne” e inumane, e la cui portata – anche psicologica - su un'intera generazione fu immensa.
Ma rimandiamo per altri spunti di riflessione all'efficace libretto di sala scaligero pubblicato per l'occasione (nel quale si segnala la traduzione del libretto, appositamente eseguita, di Quirino Principe). Veniamo alla parte musicale. Metzmacher conferma la sua grande empatia con questa partitura dando il giusto spazio in maniera impeccabile a ogni nota, a ogni dissonanza, a ogni sibilo e a ogni grido. Una direzione estrememente efficace e magnetica, che cattura e strega rendendo l'ascolto un'esperienza – nel vero senso della parola - totalizzante.
Passando alle voci, va detto subito che in questo contesto sono sottoposte durante tutta l'esecuzione ad un tour de force agghiacciante, con continui salti dal registro grave e centrale all'acuto e sovracuto. Si canta, si parla, si grida, in questa diabolica “macchina tritacarne” (la definizione la prendiamo, coerentemente, dalla battaglia di Verdun del 1916) dell'ugola. Tanto più che alla Scala, come a Salisburgo, sono stati eseguiti dal vivo anche i passaggi all’inizio del IV atto per i quali lo stesso compositore raccomandava di mandare una registrazione vista la loro estrema difficoltà. E' evidente che solo cantanti dalla tecnica più che sopraffina possono sperare di riuscire a portare a termine un compito così estremo. Ma ce l'hanno fatta. Tutti. A cominiciare da Laura Aikin, che ha saputo superare agilmente tutte le eccezionali difficoltà della partitura dando voce e corpo a una Marie fragile ma non sottomessa, ingenua ma mai rassegnata: sfaccettature evidenziate da una superba prova da attrice. La scena finale, con quell'urlo straziante levato al cielo a braccia alzate, in penombra, come una'arcaica orante mentre gli strumenti pian piano si spengono riportandoci al nulla primordiale, ha una forza scultorea che non si potrà facilmente dimenticare.
Buona la prova anche di Alfred Muff, un Wesener perennemente sospeso tra amor paterno e opportunismo: lasciato da parte l'iniziale tentennamento nei confroni delle avances di Desportes, decide poi di convincere Marie a tentare l'arrampicata sociale cedendogli. Un padre che non protegge la figlia ma la consegna alle lubriche attenzioni di un viscido e fedifrago soldato non è un padre che si rispetti. Sarà lui la causa della perdizione. E per questo sarà punito nel modo più atroce: la perderà per sempre e quando la ritroverà per caso mendìca per strada, la caccerà senza nemmeno riconoscerla. Una mancata agnizione che ha l'odore acre della condanna eterna.
Thomas E. Bauer interpreta uno Stolzius fragile e insabile che però prende consapevolezza di sé e del mondo man mano che l'azione si dipana. Da bamboccio mai cresciuto e succube (Freud docet) della madre – mentre lei rampogna i facili costumi della fidanzata egli le si rannicchia tremebondo in grembo – si trasforma in spietato vendicatore dell'onor perduto (e dell'innocenza, non solo di Marie ma anche sua!) portando con sé col veleno l'infido Desportes nella morte. Così facendo riscatta la sua fragilità iniziale con un gesto rivoluzionario e di titanico ribellismo. Vocalmente più che promosso, considerando anche gli estremi limiti a cui questo ruolo da baritono è spinto.
Daniel Brenna è un Desportes mascalzone, cinico e falso che del dongiovanni non possiede il fascino ma solo la spregevole dissolutezza, acuita dalla rozzezza dei modi e dei costumi. L'impervia parte vocale è risolta brillantemente, le note acute sorrette da un importante e sempre controllato falsetto.
Buona la prova di Okka von der Damerau, che tratteggia una Charlotte dalla vocalità piena e dalla personalità spiccata. Più che discreti Wolfgang Ablinger-Sperrhacke (capitano Pirzel),Matthias Klink (il giovane Conte), Matjaž Robavs, Morgan Moody e Boaz Daniel (ufficiali Haudy, Mary e Eisenhardt). Ok anche Renée Morloc, nei panni della severissima madre di Stolzius, e Cornelia Kallisch (la madre di Wesener e nonna di Marie): quest'ultima una sorta di inquietante fantasma di spirito profetico dotato, che mentre discosta culla i fanciulleschi sogni di sponsali della nipote, presagisce già, ineluttabile, la tragedia finale. Delle tre dee-madri “totemiche” di quest'opera dai mille reconditi significati emerge però, monumentale,Gabriela Beňačkova, ossia la Contessa de la Roche madre del giovane Conte. La sua è stata una presenza scenica di grande peso accompagnata da una vocalità maestosa, che in una parte vertiginosamente impervia per lo sforzo richiesto ha mantenuto un controllo una emissione e un volume veramente impressionante. Chapeau.
Alla fine, lunghi e meritatissimi applausi per tutti, e la netta impressione di aver assistito a uno spettacolo che resterà negli annali scaligeri (e non solo) come uno dei più riusciti, geniali, inquietanti e terribili della sua lunga storia.

Nessun commento:

Posta un commento