lunedì 30 novembre 2015

La Banda Elastica Pellizza il 4 dicembre suona a Lucera.


Vengono da Torino, quelli della Banda Elastica Pellizza. Ma c’è chi ha radici pugliesi. Come il leader, Daniele Pelizzari. Figlio di emigrati in Piemonte, il cantante e chitarrista racconta anche un pezzo della propria storia personale nell’album Embè?, progetto che con i compagni d’avventura presenterà, in esclusiva regionale, venerdì 4 dicembre (ore 22, ingresso libero) a Palazzo D’Auria Secondo, il magnifico edificio a pochi passi dal Duomo di Lucera risalente al 1500 (info www.palazzodauriasecondo.it e 3339188472).
Qui, a qualche chilometro da Foggia, la madre di Pelizzari è cresciuta. Per cui il musicista si sentirà anche un po’ a casa, lui che è nato e vissuto nella città della Fiat e della Mole Antonelliana, dove nel 2003 ha fondato il gruppo che lo vede autore di musiche e testi. Nel 2008 è arrivata anche la targa Siae-Tenco per l’album La parola che consola (tra gli ospiti il compianto Roberto Freak Antoni degli Skiantos), lavoro seguito tre anni fa da Oggi no e nel 2015 da Embè? (Incipit Records/Egea Music), dodici nuove canzoni a base di ironia, qualche goccia di veleno, ma anche poesia e un pizzico di mistero.
«Dopo un’esperienza poco felice con il mondo della discografia, ci siamo presi il tempo e gli spazi per suonare e registrare quest’album maturo, divertente e artisticamente libero, svincolati da strategie di mercato. Infatti, lo abbiamo co-prodotto noi cinque, insieme all’amico fiorentino Franco Cammarata», racconta Pelizzari (voce e chitarra), che con Andrea Sicurella (chitarra elettrica, mandola e clarinetto), Paolo Rigotto (batteria e cori), Alessandro Aramu (basso e cori) e Bati Bertolio (fisarmonica, tastiera e organo Hammond) forma la Banda Elastica Pellizza, gruppo dissacratorio e divertente, ma mai retorico.
Pelizzari e soci cantano e suonano storie minimali, a volte ironiche e sul filo del surreale, a volte profonde ma fresche, leggere di spirito e mai banali. Cantano e suonano mondi che d'abitudine non fanno la voce grossa. E che per questo passano spesso inosservati.  E li cantano e suonano avendo come punto di riferimento una certa canzone d’autore. «Sono cresciuto ascoltando Gaber, Jannacci e la comicità di Cochi e Renato», spiega Pelizzari, che è stato anche molto influenzato dallo humor stralunato di Mario Marenco (citato nel brano Le forze disarmanti), una delle voci storiche della trasmissione radiofonica cult Alto gradimento con Gianni Boncompagni e il foggiano doc, Renzo Arbore, per il quale Pelizzari nutre una certa ammirazione.
Già nel primo album della Banda Elastica, Pelizzari aveva strizzato l’occhio alle proprie radici ostentando un accento pugliese in Mi Ma, da bravo figlio dell’emigrazione in Piemonte degli anni Cinquanta. Però poi confessa di aver saltato tutta la scena underground e new wave che dominava Torino negli anni Ottanta e Novanta. «Perché mi piacevano il blues, i Led Zeppelin e Bob Dylan», racconta, confidando anche le sue passioni letterarie. «Ora leggo con fatica - svela - ma a vent’anni rimasi fulminato da Kerouac e Burroughs, i poeti della beat generation». E riflessi di queste letture si avvertono nei testi, sempre ormeggiati alla rima: «Mi rifaccio a De André, anche se in trent’anni di musica ho maturato un mio stile, con il quale ho voluto rendere le mie canzoni sempre piene di dignità».
Proprio come i brani che compongono Embè?: l’introduttiva Le chiappe della moglie di Ernesto (apologia delle natiche femminili e di istinti primordiali), quindi Bara per te (racconto della disillusione verso il mercato della musica e gli intermediari), La trama (sulla realtà come mistero), Le forze disarmanti (omaggio all’umorismo classico e a tratti triviale di Mario Marenco), Liscio (un auspicio di serenità per un figlio), L’ape (storia di un personaggio cialtronesco che sembra uscito da una canzone di Capossela), Embè? (sull’inconsistenza dei ruoli sociali e le proprietà materiali), La manza (esaltazione delle rotondità femminili), Hermosa (sulla mancata soddisfazione del desiderio), Tiro a Campari (dedicato a chi trova rifugio negli aperitivi), Hare Hare cellulare (sul telefonino, nuova forma di schiavitù) e la conclusiva Il paesaggio infinito (invito ad alzare lo sguardo oltre le nostre miserie).

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