venerdì 14 dicembre 2007

Tokyo String Quartet: una sublime lezione di stile e civiltà musicale


A Bari non esiste purtroppo una consolidata tradizione cameristica. E’ anche raro, va detto, ascoltare ensemble di assoluto valore internazionale come il Tokyo String Quartet. Lo scorso anno abbiamo, per esempio, goduto l'ascolto – letteralmente incantati - dell’inglese Arditti String Quartet. Fortuna che in anni più recenti c’è stata l’Accademia dei Cameristi che ha proposto con lodevole continuità la presenza di una stagione di almeno una decina di concerti all'anno, tutti di buon livello, dedicata all’esecuzione di trii, quartetti, quintetti di Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms e tanti altri compositori noti e meno noti (anche del Novecento). Anni che hanno dunque permesso di formare comunque un discreto e solido pubblico di appassionati del genere. Ecco spiegata forse l’assenza di un pubblico più massiccio ieri sera (oltre alla disgraziata coincidenza di altri due appuntamenti di musica classica nella città: ma questa purtroppo non è una novità) al Kursaal Santalucia, dove suonava una delle migliori formazioni di quartetto d’archi al mondo. Ed è stato un vero peccato perché il concerto di ieri, tenuto dal formidabile ensemble nipponico per la stagione della Fondazione Petruzzelli, era davvero uno di quegli eventi a cui assolutamente non mancare. A dispetto del nome, va detto, il Quartetto è stato fondato nel 1969 all’interno della gloriosa Julliard School of Music di New York, dove si ritrovarono quattro musicisti precedentemente allievi della Scuola di Musica Toho di Tokyo del celebre professor Hideo Saito.
In quasi trent’anni di luminosa carriera artistica, l’ensemble ha tenuto concerti in tutto il mondo, inciso dischi importanti, organizzato indimenticabili masterclass per tanti giovanissimi musicisti.
Pur cambiando i suoi membri originali, il Quartetto di Tokyo è rimasto di straordinario, strepitoso livello. Nel programma presentato ieri sera spiccava anche una coinvolgente novità contemporanea (“Primera Luz” della giovane pianista-compositrice di Chelyabinsk Lera Auerbach) incastonata tra due note pagine come i quartetti n. 3 op. 18 e il n. 1 op. 59 “Razumovskij” di Beethoven.
I quattro solisti (Martin Beaver, Kikuei Ikeda, ai violini, Kazuhide Isomura alla viola e Clive Greensmith al violoncello: si tratta di strumenti Stradivari) hanno interpretato le pagine in programma con un’eleganza, uno stile, una qualità di suono a dir poco sublimi. La grandezza di un quartetto d’archi, si sa, non dipende solo dall’indiscussa qualità oggettiva dei quattro artisti che lo compongono ma soprattutto dalla capacità di dar vita al momento dell’esecuzione ad uno strumento unico, ad un’anima sola. Come accade per le orchestre più blasonate (si pensi ai Berliner o ai Wiener Philarmoniker e al loro “sound” da brividi) anche nella formazione del quartetto d’archi le eccellenti individualità che lo compongono devono, per così dire, “scomparire”, insabbiarsi di fronte ad un progetto comune di altissimo livello. Quello che poi sorprendeva ieri sera era d’altronde la disinvoltura del Tokyo di passare da un quartetto giovanile di Beethoven, riletto con sopraffina leggerezza e un’attenzione specialissima all’agogica e alle dinamiche, ad una pagina di invece complessa struttura armonica, eppure così drammaticamente intensa e comunicativa come “Primera Luz”. Nel primo Raszumowsky, si sa, c’è una svolta radicale nello stile beethoveniano che dai rassicuranti modelli haydniani passa ad una scrittura più personale ed esuberante, che per certi versi indica già i tratti avveniristici degli ultimi immensi capolavori cameristici. Il Tokyo String Quartet ne ha offerto un’interpretazione vivida, vibrante, appassionata, oltre che di pulizia tecnica quasi… sconcertante. Il pubblico barese ha accolto proprio quest’ultima interpretazione con tutto l’entusiasmo che meritava. Due bis da altrettanti quartetti di Mozart e Haydn hanno poi suggellato uno dei più emozionanti e raffinati concerti ascoltati a Bari negli ultimi sedici anni.

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