martedì 24 luglio 2007

La castigata Salomé francese di Richard Strauss in scena al Festival della Valle d'Itria


Era un’occasione unica quella dell’altra sera al Festival della Valle d’Itria di Martina: ascoltare dopo un secolo esatto dall’ultima esecuzione la Salomé di Richard Strauss, ispirata al celebre testo del grande drammaturgo Oscar Wilde nella lingua originaria dell’edizione originale. Non dunque la “solita” Salomé in tedesco, che peraltro in Puglia non si è purtroppo a tutt’oggi mai allestita, ma una partitura dimenticata negli archivi dell’Istituto Richard Strauss di Monaco di Baviera e ritrovata verso la fine degli anni Ottanta. Ritrovamento che ha poi permesso una parziale versione da concerto nel 1989 al Festival di Montpellier, utilizzando però la stessa orchestrazione concepita per il teatro tedesco. Va detto, come ha più volte ricordato Sergio Segalini, direttore artistico del Festival della Valle d’Itria, che la cosiddetta versione in lingua francese che per molti anni ha girato l’Europa e in particolare la Francia deriva da una pedissequa traduzione dal tedesco e non ha nulla a che vedere con l’edizione proposta qui che invece risale al 1907, quando l’opera fu data prima in forma privata in un piccolissimo teatro a Parigi, e poi nello stesso mese al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles. Circa due mesi dopo invece la Salome in tedesco venne diretta per la prima volta a Parigi allo Chatelet dallo stesso autore. L’edizione francese originale di Wilde sparì dunque dalle scene, mentre circolarono come detto altre edizioni francesi, ricavate sempre da traduzioni dal tedesco. Ecco perché a Martina si trattava, in effetti, di una prima ripresa mondiale dopo quella del 1907 a Bruxelles.
Detto questo però, vi dico subito che la Salomé francese non è assolutamente paragonabile alla Salome tedesca e costituisce a pieno titolo (quasi) un’altra…opera. Infatti, e non solo per una questione meramente linguistica, l’edizione francese è diversa anche da un punto di vista squisitamente orchestrale e musicale. L’orchestra appare infatti snellita, mancano rispetto all’edizione tradizionale il quinto e il sesto corno, la seconda arpa e l’heckelphon (e cioè il cosiddetto oboe baritono). In verità a Martina, anche l’organico complessivo degli archi era, per esempio, inferiore a quello che in genere si adotta (ed in teatri per giunta al chiuso) in Austria, Germania, Inghilterra e Stati Uniti, dove l’opera straussiana è assai più “frequentata” rispetto all’Italia. Ci chiediamo: una scelta voluta o, almeno in parte, forzata dai costi che un organico maggiore avrebbe comportato? Una risposta a tale quesito non sarebbe di poco conto, dato che ascoltando l’opera l’altra sera, ai più, è parso che proprio il necessario volume sonoro dell’ orchestra fosse carente.
Nell’insieme, d’altro canto, l’operazione di recupero di questa versione francese della Salomé è comunque meritoria e si inserisce nel contesto di un festival che si caratterizza, come pochi altri nel mondo, per l’ostinata ricerca di titoli dimenticati del repertorio teatralmusicale o, al contrario, di titoli già celebri in edizioni o versioni però ancora sconosciute al grande pubblico.
Questo progetto se da un lato può portare a riscoperte significative, come è stata, almeno per certi versi, la riproposta in tempi moderni dell’Achille in Sciro di Domenico Sarro, dall’altro può invece restare un discorso limitato nei confini di una certosina ricerca filologica che interessi solo pochi eletti.
Ecco dunque perché - a prescindere dalla valenza comunque positiva di un’operazione del genere - va sempre messa in conto la risposta del botteghino.
A Martina, in fin dei conti, Segalini ha vinto anche la sfida della Salomé francese, perchè è riuscito a fare il tutto esaurito nelle due recite previste (stasera, a proposito, si replica sempre alle 21, con diretta su Rai Radio Tre). Lo spettacolo, a scanso di equivoci, non è però piaciuto a chi scrive. La regia di Alexander Edtbauer (sui bozzetti per le scene e i costumi di Karen Hilde Fries) non mi è infatti sembrata all’altezza di un’opera così straordinaria e complessa come Salome.
A parte il minimalismo - ormai imperante - che imperversa come un insistente filo rosso in tutti gli allestimenti più recenti di Martina, qui mancava pure una regia credibile o che perlomeno avesse una coerenza di fondo. Non starò qui a raccontarvi la trama dell’opera, perché mi pare cosa superflua, trattandosi di un racconto biblico, prima che di un testo drammaturgico (quello di Wilde, per l’appunto) ad essa ispirato, celeberrimo. Sta di fatto, che la scandalosa Salomé straussiana con tanto di primo spogliarello assoluto nella storia del teatro moderno (si pensi al sempre attesissimo momento della “danza dei sette veli”) si sia trasformata in una vicenda ambientata presumibilmente nei primi anni del Novecento. Erode ed Erodiade, sembrano due ricchi psicopatici ubriaconi, Salomè in versione bionda-gelida-cinica Lolita (incontentabile sì, ma poi anche imbranatissima nel danzare ed alleggerirsi da quei miseri sette veli). E quando poi alla fine ti aspetteresti di vederla nuda, o almeno in topless e tanga, resti deluso dalla calzamaglia color carne che ne nasconde le preziose virtù. Insomma, una Salomé così priva di sensualità, così castigata nelle movenze, così poco demoniaca, non mi era capitata mai. Per non dire poi dell’incomprensibile, e per certi versi ridicolo, finale con il redivivo Jokanaan che avanza sul palco con la sua testa in mano e lasciando la stessa nelle mani di Salomé si allontana poi, quasi passeggiando, dalla scena.
Del resto a parte il credibile Erode di Leonardo Gramegna, ho notato nel corso di tutta l’opera un diffuso immobilismo in quasi tutti i personaggi. Dal punto di vista musicale fortunatamente le cose sono andate meglio, perché Massimiliano Caldi è un giovane, capace direttore d’orchestra e ha avuto se non altro il merito di optare per una lettura almeno coerente con il contesto e il materiale umano a disposizione; d’altro canto, va detto, che se Salomé diventa nella versione francese un’opera grandemente attutita, se non snaturata, nel suo lato barbarico, nei suoi eccessi più primitivi, o nella forza espressivamente accecante e “violenta” della sua musica…che Salomè è?
Direi che è semplicemente un’altra opera. Punto e a capo. In questa visione di edulcorato pseudo-impressionismo, si è trovata a suo agio l’Orchestra Internazionale d’Italia che, a parte qualche comprensibile imprecisione, ha offerto complessivamente una buona prova. Nel cast vocale, un po’ al di sotto delle aspettative della vigilia, hanno brillato oltre al già citato Erode di Gramegna, anche Sofia Soloviy (una Salomé tanto scenicamente impacciata, quanto vocalmente abile e generosa) e la vulcanica Erodiade di Francesca Scaini. Apprezzabile soprattutto il finale dell’opera, dove finalmente, quasi per incanto, sono venute a galla sonorità più smaglianti e consone allo stile del Signor Maestro Richard Strauss.

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