
In Schubert, Palumbo ha ottenuto dall’orchestra la necessaria leggerezza nei colori (si pensi agli eleganti interventi dei legni), cercando fin dove era possibile la giusta scansione delle indicazioni dinamiche; mentre, non ci è parso sia riuscito, malgrado l’indiscusso impegno profuso nelle prove, a rendere vivace e ritmicamente più ficcante la partitura giovanile del grande Franz. Meglio sono andate le cose con Brahms, dove a fronte di una scrittura più complessa e notoriamente intrisa di difficoltà tecniche ed espressive, Palumbo ha regalato al pubblico barese una lettura intensa e drammaticamente ineccepibile del capolavoro brahmsiano. L’orchestra, dal canto suo, è parsa invece meno attenta e precisa che in Schubert. In particolare i violini (pochini se consideriamo che per la stessa sinfonia altre orchestre ne utilizzano quasi il doppio) hanno palesato ricorrenti problemi di intonazione ed omogeneità sonora. Peccato, perché Palumbo è un ottimo direttore, ha le idee chiare e possiede soprattutto una spiccata personalità. A giugno, sempre lui, dirigerà qui a Bari - ancora una volta per la stagione della Fondazione Petruzzelli - l’Attila di Verdi in forma di concerto.
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