lunedì 23 luglio 2012

Piace al pubblico di Martina Franca la prima opera commissionata dal Festival della Valle D'Itria in trentotto anni di storia

La prima opera contemporanea direttamente commissionata dal Festival della Valle d'Itria in 38 anni di vita è andata in scena con successo al cineteatro Verdi di Martina Franca sabato scorso. Nûr di Marco Taralli, su libretto di Vincenzo De Vivo si svolge in una notte, tra i letti di un improvvisato ospedale da campo allestito nel prato antistante la Basilica di Collemaggio, all’indomani del terribile terremoto che il 6 aprile 2009 ha devastato L’Aquila e i borghi circostanti. Narra la storia di una donna senza nome che ha misteriosamente perso la vista nel crollo della sua casa e che trascorre una notte di delirio, tormenti e visioni. I compagni di corsia, disturbati dal suo continuo lamentarsi per il buio che la circonda, la chiamano Luce. Si prendono cura di lei un vecchio Monaco (Celestino V) che nessuno, tranne Luce, può vedere e Samih, un giovane Medico arabo contrastato dalla concretezza spiccia del Primario che, nell’emergenza del momento, rimuove lo spazio della compassione umana in quanto ostacolo all’efficienza delle cure. Questa drammatica vicenda notturna, allo spuntare dell’alba, approderà ad una scoperta salvifica per la coscienza della donna.Il percorso iniziatico della protagonista femminile dell’opera è sorretto, in primo luogo, dall’esempio illuminante di un grande Santo della cristianità, il primo pontefice della storia che ha parlato della necessità di superare le asprezze e le rigidità delle ideologie e degli schieramenti contrapposti, per di più in pieno Medioevo, epoca di crociate e di aspri scontri religiosi sia interni alla Chiesa che tra Cristianesimo e Islam; e poi dalla vicinanza, dalla solidarietà umana e compassione di un giovane arabo, di religione musulmana, che l’accompagna per mano in un percorso di affinità elettive. Oltre alla vicenda storica di Celestino V, il Papa del “gran rifiuto” o meglio della “rinuncia” al papato, emerge quella di Jacques de Molay, l’ultimo Gran Maestro dei Templari.
La vicenda è indubbiamente carica di fascino, attualità e mistero. Taralli gioca da raffinato artigiano e conoscitore della variegata tavolozza dei timbri orchestrali; lo fa più poggiando su un costante neoverismo con reminiscenze che vanno da Puccini a Pizzetti e Respighi, che su una ricerca nuova, originale, sperimentale. La sua musica è orecchiabile, gradevole, costituendo colonna sonora efficace anche per la intelligente regia di Roberto Recchia, su scene e costumi di Benito Leonori; ripropone però clichet drammaturgici vetusti e ormai superati. Il libretto non possiede qualità poetiche o una benchè minima articolazione ritmica che giustifichi l'utilizzo di una vocalità tardo ottocentesca. Sembra una sceneggiatura da fiction televisiva. L'effetto, in certi momenti, va detto, sfiora quasi il ridicolo. Nell'omogeneo cast vocale: bene Paolo Coni (il frate) e David Ferri Durà (Samih), mentre delude vocalmente la protagonista dell'opera Tiziana Fabbricini (Luce): ci chiediamo dove sia finita la straordinaria Violetta scaligera di un paio di decenni fa? L'Ensemble dell'Orchestra Internazionale d'Italia e il Coro dell'Accademia Celletti se la cavano egregiamente diretti dalla giovane bacchetta spagnola, Jordi Bernacer. Al pubblico dopo un'ora e venti di musica non gli par vero di non essersi annoiato ad un'opera "contemporanea" ed applaude felice. Siamo lontani Anni Luce dai tempi in cui si contestavano le première operistiche di Stockhausen, Manzoni, Nono, Berio, Bussotti eccetera, eccetera. E' in sostanza finita l'epoca dei ricercatori-costruttori-demiurghi di suoni-rumori-effetti speciali; ora si cercano e si trovano con successo compiacimento e approvazione del pubblico. I nuovi linguaggi possibili e la sperimentazione sono finiti, almeno per alcuni compositori, nel cassetto dei ricordi. Sarà un bene o un male
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