lunedì 3 novembre 2014

"Alla Scala Nucci "diventa" Simon Boccanegra. E trionfa." di Elena Percivaldi

Leon Nucci (Simon Boccanegra)
"Il “Simon Boccanegra” di Giuseppe Verdi è opera complessa e poco conosciuta del repertorio verdiano, in cui è rientrata solo dopo una “riscoperta” operata negli anni Trenta del secolo scorso. La prima, alla Fenice di Venezia nel 1857, fece fiasco soprattutto a causa della vicenda troppo intricata, cui non riuscì a dare ordine l'arzigogolato libretto di Francesco Maria Piave. Rimasta nel cassetto dell'editore Ricordi per anni, l'opera fu poi rimaneggiata (sostanzialmente riscritta) da Verdi per la Scala dove andò in scena con discreto successo nel 1881. Ma si trattò di un lavoro molto diverso. Ventiquattro anni erano passati dalla prima alla seconda versione (curiosamente venticinque sono quelli, nella vicenda, tra il prologo e l'azione): un quarto di secolo in cui Verdi aveva meditato sui drammi umani, composto un lavoro cupo come “Don Carlo” e iniziato il sodalizio con Arrigo Boito (cui dovrà i toni mefistofelici, nel “Simon”, di Paolo). Aveva inoltre visto compiersi l'unità d'Italia, esprimendo solo pochi anni dopo, il 16 giugno 1867, in un'accorata lettera al nobile mantovano Opprandino Arrivabene (che con lui era in Parlamento) forti critiche e grande disillusione: «Cosa fanno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie! (…) Ora che tutti siamo uniti, siamo rovinati. Ma dove sono le ricchezze d’una volta?».
Il clima in cui viene rivisto il “Simon Boccanegra” è questo. Al dramma umano del protagonista (la donna amata che muore e la figlia, perduta e ritrovata dopo tanti anni ma amante del nemico) si unisce quello pubblico: gli odi tra Genova e Venezia, il tentativo di scongiurare la guerra in nome della patria comune, le congiure e i tradimenti e la morte finale, dove la speranza è consegnata alla riappacificazione tra vecchi e nuovi nemici, con la tiara dogale consegnata al genero, flebile speranza per un futuro meno cupo.
Alla Scala di Milano il dramma verdiano è ritornato con la stessa produzione (con la Staatsoper di Berlino) che debuttò nel 2010 con Placido Domingo nel ruolo del titolo. Si ascolterà di nuovo Domingo, reduce peraltro da una non certo brillante prova come Conte di Luna nel “Trovatore” a Salisburgo, nella seconda parte delle recite: si divide infatti con Leo Nucci le rappresentazioni e parimenti sul podio si alternano Stefano Ranzani Daniel Barenboim. Noi abbiamo visto, il 2 novembre, la versione Ranzani-Nucci e di questa commentiamo.
Cominciamo dalla regia di Federico Tiezzi per dire che ci è parsa convincente e suggestiva, così come le scene di Pier Paolo Bisleri, scarne e cupe e quindi in tono con un dramma in cui il pessimismo aleggia dalla prima nota al finale e riveste accenti inesorabilmente cosmici. Molte le citazioni, dai pittori Pre-Raffaelliti (Dante Gabriele Rossetti, Burne-Jones, Millais) al “Buon Governo” del Lorenzetti, dal simbolismo di Puvis de Chavannes al romanticismo tedesco. E a questo proposito perfetta ci è parsa la collocazione, nella sala ducale proprio sopra il trono dell'algido"Naufragio della speranza", alias "Il mare di ghiaccio", di Caspar David Friedrich: epigrafe (anzi, epitaffio funebre) alla cattiva politica, ridotta a un guazzabuglio di odi e rivalità familiari ataviche che non può non risolversi nel dramma (in questo caso la morte dell'idealista Simone), prima della catarsi finale.
La grande magnificenza della Genova dei dogi non c'è. Il Palazzo ducale è una sorta di luogo immaginario, a farne intuire la presenza è solo l'architettura gotica delle sedute dei membri del consiglio e del trono: più che circostanziare in un tempo e in un luogo ben preciso, la Genova del Trecento, il regista sembra voler puntare su un archetipo – l'idea del potere, e le brame e le passioni che inevitabilmente lo circondano - che è lo stesso e si perpetua e di declina sempre e ovunque, con lievi varianti, ma allo stesso modo.
Particolarmente riuscita ci è sembrata la prima scena dell'Atto primo, il cui denso simbolismo è però molto chiaro e pregnante: tre cipressi, radici in vista, sono calati lentamente dal cielo fino a terra mentre Simone e Maria/Amelia scoprono il loro legame familiare di padre e figlia. L'albero della vita, con tutto il suo portato metaforico, torna a radicarsi sulla terra proprio nel momento dell'agnizione e la famiglia ritrova la sua unità. L'equilibrio dopo tanti anni ritrovato è però, lo si vedrà subito dopo, solo una effimera chimera. Sullo sfondo aleggia, elemento catartico e salvifico, presente in dense pennellate scure che ne evocano la procella, il mare, da cui Simone che è corsaro proviene e al quale alla fine, annaspando in cerca di ristoro dall'oscuro veleno che lo sta consumando, si rivolge inutilmente.
I costumi di Giovanna Buzzi sono magnifici. Quello di Simone pare ricalcato sul celeberrimo ritratto del doge (di Venezia però) Leonardo Loredan, opera del Giambellino, quelli di Maria/Amelia evocano le eteree e sensuali donzelle preraffaellite, il coro finale in abiti ottocenteschi riporta la vicenda, nel compiersi del dramma, ai tempi di Verdi e al clima politico degli anni risorgimentali e immediatamente seguenti l'unità, con annessa disillusione di cui sopra. Spunti su cui meditare anche in questi giorni. 
Passiamo ora alla parte musicale. Di grande classe e impressionante impatto la performance di Leo Nucci. A 72 anni giganteggia sulla scena e fa “suo”, nel modo più completo e perfetto, Simone. La voce (che pure non può per motivi anagrafici essere squillante come una volta) tiene ancora benissimo con un livello di volume più che buono. Il doge è dipinto rispettando tutte le nuances prescritte da Verdi. Si esalta nei momenti più lirici (duetti con Amelia) e risolve con piglio regale quelli più imperiosi. Per lui trionfo e ovazione assolutamente meritati.
Entusiasmante la Maria/Amelia di Carmen Giannattasio, che si conferma una splendida artista. Deliziosa la sua avvenenza, accentuata dall'aura preraffaellita dei costumi. La voce è bella e corposa: notevole nel registro acuto (esaltanti i momenti più propriamente lirici, soprattutto nei duetti), mentre ci è sembrata un pochino più in difficoltà nei passaggi al registro grave. Poco male.
Ramón Vargas ha tratteggiato un Gabriele Adorno passionale e gagliardo ma dal punto di vista vocale ci aspettavamo qualcosa di più. La voce sembra aver perso un poco lo smalto di un tempo: i momenti migliori, anche nel suo caso, sono quelli più propriamente lirici, mentre qualche difficoltà di troppo è emersa nelle parti dove si richiede spessore drammatico.
Carmen Giannattasio (Maria/Amelia)
Alexander Tsymbalyuk ha un fisico imponente e sulla scena è un bel vedere anziché no. Il suo Fiesco è stato convincente sul piano interpretativo, ma la partitura richiede profondissime incursioni nel registro grave che non abbiamo sentito se non flebilmente: troppo poco per donare davvero al ruolo il “peso” vocale che richiede e che lo porta, in certi passaggi, a ravvicinarsi al Commendatore mozartiano con tutti gli annessi e connessi del caso. Rivedibile. Meglio il Paolo Albiani di Vitaliy Bilyy, anch'egli dotato di indubbia presenza scenica, che è stato capace di rendere, vocalmente e interpretativamente, l'ambiguità e la doppiezza di un personaggio dai tratti bruni e mefistofelici.
Stefano Ranzani ha diretto la difficile partitura verdiana scegliendo tempi che ricordano molto la edizione di Gavazzeni del 1973, che con quelle dirette da Abbado va considerata edizione di riferimento. Il piglio è sembrato deciso e aderente al testo (più di Barenboim che si è ascoltato nel 2010 e prenderà il testimone nelle recite del 6, 11, 13, 16 e 19 novembre, i cui tempi sono decisamente dilatati), anche se forse alcuni attacchi orchestrali ai momenti più lirici andrebbero smorzati. Come sempre ottimo il coro diretto da Bruno Casoni."


Elena Percivaldi

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