mercoledì 8 giugno 2016

"Il canto perduto: Giuseppe Di Stefano" di Nadege Bruni


"Di Stefano è forse uno degli ultimi, se non proprio l’ultimo tenore che, a pieno titolo, ha rappresentato  un’epoca in cui il modo di cantare, anzi, di  intendere il canto in senso più esteso, è stato soppiantato dalla ricerca “timbrica” fine a se stessa in nome di un tecnicismo, più che di una vera e propria  tecnica di canto, sempre più finalizzato al divismo da stadio. 
Mi si passi l’immagine volutamente forte, ma che l’Opera manifesti un periodo di crisi è sotto gli occhi e le orecchie di tutti: cantanti di talento discutibile ma di bella immagine, produzioni teatrali caratterizzati da regie perlomeno oltraggiose, direttori incompetenti.   Il problema è che non si pensa più al libretto d’opera nel suo significato più intimo, né alla rappresentazione  teatrale come un momento di incontro tra musica e scenografia che sottolinei la sacralità artistica di una certa tradizione che poi è la nostra, invidiata in tutto il mondo.
Il cantante di oggi tende ad essere prima un’"impiegato della musica” e se gli bene, dopo, una star sul modello del pop perché il melodramma può ancora lanciare divi, ma sempre più nell’interesse di questi ultimi e dei loro agenti, complici le stesse vecchie volpi della lirica- non vogliamo fare nomi- che indulgono assai spesso a duettare con miti della canzonetta sino a diventarlo loro stessi.   
Quasi mai un tenore o un soprano  si trasforma in un'artista capace di "osare", di esporre il proprio intimo allo scoperto, di lasciarsi andare sull’onda interpretativa  anche a rischio della stecca, ma  questa è la condizione senza la quale non si può essere artisti!

Orbene, Di Stefano aveva impresse in mente le intenzioni di Verdi: "L'arte del canto, in parole semplici è l'arte di unire i più bei suoni della tua voce all'articolazione della parola, nel canto e nei recitativi per ottenere tutti quei colori richiesti dal poeta, dal musicista, e dal direttore d'orchestra. Ma occorre avere dell'anima: cioè un temperamento musicale e teatrale di primo ordine, per poter fondere il tutto in un fatto espressivo, artistico."
Con queste parole Di Stefano apre il suo unico libro “l’arte del canto (ed. Rusconi)”.
É molto chiara la sua visione del canto nella quale l'istinto è tutto. Secondo la sua visione,  un'ottima voce che non sia supportata da un "istinto adeguato" è destinata a non lasciare alcuna traccia.
Nella sua formazione giovanile Di Stefano ha avuto la fortuna di conoscere e lavorare accanto a giganti canori  carpendone  i segreti, tra cui : Beniamino Gigli (con il quale fece una turnee in Argentina), Tito Schipa, che considerava un suo modello insieme a Fleta e  Aureliano Pertile.  Faceva parte, come dicevo poc’anzi, di una epoca in cui cantarono i migliori artisti del dopoguerra dei quali era amico e con i quali si confrontava. Basti ricordare Franco Corelli, Mario del Monaco, Tito Gobbi ( tanto per citarne alcuni) e soprattutto Maria Callas, che fu per lungo tempo sua partner artistica al punto che il duo Callas/Di Stefano ricordava nei melomani   quello di Schipa/Toti Dal Monte. Per far capire l’artista Di Stefano bastino  le sue parole: " Un personaggio non lo si può spiegare lo si deve sentire, nella musica e soprattutto nelle parole. La tecnica di oggi è monocolore invece la voce è come un viso, i cantanti di oggi non hanno viso, e quando esci dal teatro dopo aver visto e sentito un'opera, ti chiedi che opera era."
La critica ha spesso travisato e contestato questo modo di sentire il melodramma. D’altronde il grande Pippo era unico nel panorama internazionale e questo generava invidie. Ai critici puristi non piaceva il suo canto “aperto” e solare, che ritenevano l’unica causa di un prematuro declino, senza considerare gli enormi meriti artistici che, con “quel” modo di cantare, Di Stefano si era guadagnato fin da giovanissimo e che comunque gli garantì,ì- detto modo di cantare-  una carriera di circa 4 decadi. Giuseppe di Stefano non era neppure disciplinato: fumava, apprezzava i conviviali e le belle donne. Non fu mai un cantate “secchione”, per usare sue metafore del libro. Anzi, era tutto l’opposto. Era  semplicemente  un cantante vero, capace di virtuosismi impensabili (il suo do filato del Faust è considerato una O di Giotto canora e moltissimi che cercano ancora oggi di imitare questo nobilissimo colpo di cesello- pur non scritto- spesso si infortunano. Lo stesso Corelli, fine artista prima che grande cantante, filava al massimo un si bemolle) e di grande e travolgente impeto passionale.  I suoi detrattori che gli imputano di avere sbagliato repertorio, ad un certo punto della carriera, per essere passato al verismo e al genere drammatico da tenore lirico puro quale egli era, si devono arrendere alla straordinaria bellezza della sua interpretazione in Cavalleria Rusticana, Tosca, Turandot e, mi si passi, anche Otello (si ascolti il suo Niun mi tema).
Di Stefano ha avuto il grande merito di portare la Scuola Italiana del Bel Canto ai suoi massimi vertici, con uno stile di canto legato alla declamazione, all'articolazione del testo, e al chiaroscuro  nella  fraseggio.
Nelle sue incisioni degli anni '40 mai una vocale viene artefatta, una A rimane una A in tutta la tessitura, senza mai scurire, appesantire o affondare. Nel libro esprime la sua irritazione per il fatto che nel canto lirico- laddove nella prosa non si ammetterebbe mai che un attore dica “ti omo” al posto di “ti amo”- nel canto lirico, dicevo, ciò è ritenuto normale. Quando cantava Di Stefano, si capiva ogni parola. Ancora oggi non si comprende che il grande pubblico non si avvicina all’Opera più di tanto proprio perché non riesce a capire cosa stiano cantando sul palco! Ma in Di Stefano ogni frase cantata abbina un'emmissione pressoché perfetta ad  un'articolazione del testo da manuale. Il cantare sulla parola significa darvi significato e nel contempo darlo anche alla musica dalla quale viene rivestita. I compositori d'opera desideravano più di ogni altra cosa che l'interprete privilegiasse il significato del testo e l'interpretazione drammatica rispetto alla “bella emissione" e alla "bella voce". Molti cantanti per le loro doti sceniche venivano preferiti a molti altri che pur cantando meglio trovavano più difficoltà ad immedesimarsi nella psicologia del personaggio. Dice Di Stefano: " Nella canzone, è racchiuso nel breve spazio di 3 minuti tutta una storia, questa va "detta" perché il pubblico la capisca aldilà degli effetti di voce, delle filature e degli acuti. Secondo me nell'opera viene prima il libretto, i mezzi del cantante sono due: il suono e la parola. La parola serve a far capire il dramma, altrimenti si fa musica sinfonica. Il pubblico dell'opera va per la storia, si commuove, vuole partecipare. Come partecipa? Non soltanto grazie a belle voci."
Con Di Stefano siamo di fronte ad un cantante che ha saputo inseguire, con pura volontà, un'ideale di bellezza: " Io non vado a teatro per ascoltare virtuosismi: eppure li ho fatti tutti. Ho fatto cose incredibili, ho fatto quel che faceva Manuel Fleta, con misura musicare e gusto preciso. Ho fatto tutti gli effetti, tutte le acrobazie del tenore, ma non mi potevo accontentare di uno strumento capace di garantirmi un facile successo Facevi una filatura e quelli lì impazzivano. Con gli anni sono andato avanti. Porta ila mia voce al punto di levare qualsiasi ombra di tecnica: a far uscire la voce in maniera naturale. Questa è la tecnica più bella. Il massimo del virtuosismo è cantare facendo dimenticare che stai cantando."
Tra i tanti talenti che hanno stupito ed emozionato, quello di Di Stefano rimane forse la più rappresentativa reincarnazione di un perfetto spirito teatrale. Egli seppe fare infiammare le anime con una voce bella e capace di numeri funanbolici. Ma soprattutto egli volle ammaliare il pubblico con un canto tutto giocato sulla parola, in cui il suo grande istinto musicale gli permise di fondere accenti lirici e piglio drammatico. Per questo, quando lo si ascolta non si considera la singola nota o battuta, notoriamente difficoltosa. Ma tutto risulta ugualmente importante e ricco di significato, impareggiabilmente bello. Anche quando la sua voce ha cominciato a perdere parte del suo smalto, la sua stupefacente capacità interpretativa ha continuato a produrre risultati indimenticabili: commovente la Forza del Destino data Vienna 1960.
Diceva con saggezza Verdi: " Il pubblico ammette tutto in teatro fuorché la noia, meglio i fischi."


                                                                                                                            Nadege Bruni

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